Sweeney afferrò i pantaloni per i risvolti e cominciò a scuoterli: caddero sul tappeto un mazzo di chiavi e degli spiccioli, ed egli continuò a scuotere, dicendo: — Goetz, verrà un giorno in cui chiamerai figlio di puttana qualcuno che lo è veramente, e quello ti darà una lezione.
Dalla tasca posteriore dei calzoni cadde a terra un portafoglio che Sweeney raccolse. Lo spalancò ed emise un brontolio di disapprovazione. — Cosa succede con tutti i tuoi pasticci delle corse? Va male? — Nel portafoglio c’erano soltanto un biglietto da dieci e uno da cinque dollari. Sweeney tirò fuori quello da dieci e gettò il portafoglio sul cassettone.
L’espressione dell’uomo calvo non era cordiale, in verità. Esclamò soltanto: — Te l’avevo già detto allora. La corsa era già cominciata. Adesso hai avuto i tuoi quattrini e fila.
— Ne prendo dieci — concesse Sweeney — non porterei mai via gli ultimi cinque dollari di un poveraccio, bellezza. Gli altri dieci li prenderò in beni: un bagno, una barba, una camicia e delle calze.
Così dicendo, si sfilava la giacca e scivolava fuori dei pantaloni. Poi, sedendo sull’orlo del letto disfatto, si tolse anche le scarpe. Entrò nel bagno ad aprire l’acqua della vasca e ne uscì nudo, con un malloppo di roba in mano: la sua camicia, le calze e gli indumenti intimi, che gettò tutti nel cestino della carta straccia.
L’uomo calvo era ancora accanto alla porta, ma la rivoltella era tornata nella tasca della vestaglia. Sweeney gli sorrise e gridò al di sopra dello scroscio dell’acqua: — Non chiamare la polizia, adesso, Goetz. Vedendomi così, potrebbero ricevere un’impressione sbagliata! — Rientrò in bagno e sbatté la porta.
Restò sdraiato nell’acqua calda a lungo, poi si rase la barba con il rasoio elettrico di Goetz. Per fortuna era elettrico, perché le mani di Sweeney tremavano ancora sensibilmente.
Quando finalmente uscì, Goetz era tornato a letto, e stava con la schiena voltata alla stanza. — Dormi, tesoro? — domandò Sweeney. Nessuna risposta.
Sweeney aprì un cassetto e scelse una camicia bianca sportiva con il colletto floscio: gli era stretta di spalle e il collo non si abbottonava, ma era comunque una camicia bianca e pulita. Anche i calzini di Goetz gli erano un po’ stretti, ma riuscì a infilarli. Contemplò con disgusto le sue scarpe e i suoi vestiti, ma non poteva trovare altro, dato che quelli di Goetz non gli si sarebbero mai adattati. Si diede da fare con le spazzole per le scarpe e per i vestiti e quando infine indossò i pantaloni verificò che in tasca vi fossero sempre al sicuro i dieci dollari. Spazzolò energicamente anche il cappello e si avviò per uscire. — Buona notte, tesorino — disse — e grazie di tutto. Adesso siamo pari. — Chiuse silenziosamente la porta, scese le scale e uscì fuori, nel sole scottante. Risalì a nord fin oltre la Dearborn Station, fermandosi in un piccolo bar a bere tre tazze di caffè e a tentar di inghiottire una delle due brioches che aveva ordinato. Aveva sapore di cartapesta, ma riuscì a mandarla giù.
Poco più lontano, si fece lucidare le scarpe e poi, nel piccolo retro del negozio dov’era entrato, attese tremando leggermente che il suo vestito venisse smacchiato e stirato. Avrebbe avuto bisogno ben più che di una smacchiatura, ma quando lo indossò era già passabile. Si diede un’occhiata nel lungo specchio e si giudicò quasi presentabile. C’erano sì dei cerchi sotto gli occhi, e gli occhi stessi non apparivano scintillanti di gioia e di benessere, e inoltre doveva tenere le mani in tasca, finché non fosse stata superata la crisi di tremito, ma nel complesso aveva un aspetto umano. Quando ebbe tirato fuori il colletto della camicia sportiva, sopra il bavero della giacca, si sentì ancora più a posto.
Dirigendosi a nord attraverso il Loop, si manteneva accuratamente nel lato in ombra della strada: cominciava di nuovo a sudare e di nuovo si sentiva sporco e aveva la netta sensazione che si sarebbe sentito sudicio così per molto tempo, per quanti bagni potesse fare. Come fa un individuo in possesso delle sue facoltà a vivere a Chicago durante un’ondata di caldo tropicale? E come fa uno a vivere a Chicago? E del resto, perché si vive? Il mal di testa di Sweeney si era intanto trasformato da un cupo dolore diffuso, in un dolore localizzato dietro la fronte e dietro gli occhi con un martellio ritmico e persistente. Le palme delle mani erano umide e appiccicose e, per quanto se le strofinasse lungo i calzoni, subito tornavano a essere appiccicose e umide. Sweeney Che Cammina Attraverso Il Loop. All’altezza di Lake Street dovette fermarsi in un drug-store a bere un altro caffè, con due pillole di bromuro. Si sentiva come una molla arrotolata troppo stretta, come uno che soffre di claustrofobia rinchiuso in una cella, come un miserabile pezzente. Il caffè sembrava nel suo stomaco l’acqua fangosa di una barca che fa acqua. Un fango tiepido, salato, pieno di piccole alghe verdi, ammesso che le alghe siano verdi. Quelle di Sweeney comunque erano di color verde e si muovevano anche.
Attraversò il Wacker Drive, con la segreta speranza che un’automobile lo travolgesse, ma nessuna lo fece; percorse il ponte nello splendore incandescente del sole, e il camminare gli era un faticoso alternarsi di sforzi per alzare e abbassare un piede dietro l’altro, finché, superato il Rush senza osare fermarsi, stringendo le mani sudate dentro le tasche, svoltò in uno spiazzo tra due edifici e infilò un portone aperto. Quella era casa sua, sempre che ci fosse ancora per lui una casa. Per il momento, rappresentava il problema più grave. Tolse di tasca la mano destra e bussò gentilmente a un uscio del pianterreno, poi ritirò in fretta la mano. Dei passi pesanti si avvicinarono lentamente e la porta si aprì.
— Salve, signora Randall. Io… — cominciò Sweeney, ma lo sbuffare della donna gli troncò ogni speranza di continuare.
— No, signor Sweeney — disse.
— Hm… volete dire che avete affittato ad altri la mia stanza?
— Voglio dire che non vi lascio entrare a prender la roba da impegnare per bere ancora. Ve l’ho già detto due volte la settimana scorsa.
— Me l’avete detto? — domandò stupito Sweeney. Si ricordava di quel fatto o no? Ora che lei glielo rammentava, una delle due volte gli tornava vagamente alla memoria. — Credo di essere stato piuttosto sbronzo — ammise e tirò un gran sospiro. — Ma adesso è passata. Sono a posto.
La donna sbuffò di nuovo. — E le tre settimane che mi dovete? Sono trentasei dollari.
Sweeney pescò fuori i biglietti sparsi nella tasca, uno da cinque dollari e tre da uno. — È tutto quel che ho trovato — disse — posso darvene otto in acconto.
Lo sguardo della donna passò dal denaro alla faccia di Sweeney. — Penso che adesso siate proprio a posto e non ubriaco, Sweeney, e se avete dei soldi non andrete a cercar di impegnare la roba, dato che con otto dollari potreste bere un mucchio di whisky.
— Sì — ammise Sweeney, e la donna si ritirò dalla porta, per lasciarlo entrare.
— Entrate, su. Sedetevi e rimettetevi in tasca i vostri soldi. Ne avrete molto più bisogno di me, finché non vi sarete sistemato di nuovo. Per quanto tempo vi può bastare?
— Per pochi giorni — rispose Sweeney, sedendo — ma appena sto bene, faccio in fretta a procurarmene dell’altro. — Rinfilò in tasca le mani e il denaro. — Hm… io… ho paura di aver perso la chiave. Forse voi avete…
— Non l’avete perduta. Ve l’ho presa io una settimana fa, perché stavate cercando di portare fuori il vostro giradischi per impegnarlo.
Sweeney si prese la testa fra le mani. — Buon Dio, l’ho fatto?
— No. Io vi ho costretto a riportarlo indietro e a darmi la chiave. Così ci sono ancora tutti i vestiti, tranne il soprabito e l’impermeabile, perché dovete averli presi prima che chiudessi. E c’è anche la vostra macchina da scrivere. E l’orologio, se non siete riuscito a prenderlo.