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Il fuoco aveva calcificato le rocce e vaporizzato il manto di gas solidificati che dovevano aver coperto la sua superficie prima del disastro. Atterrammo, e trovammo la Vòlta.

I suoi costruttori avevano fatto in modo che la si potesse trovare: l’obelisco monolitico che sovrastava l’entrata era ridotto a un troncone fuso, ma anche le prime foto prese da grande distanza ci avevano rivelato che si trattava di un’opera razionale. Un po’ più tardi scoprimmo la traccia radioattiva che era stata sepolta nella roccia tutt’intorno al continente: anche se l’obelisco sopra la Vòlta fosse andato distrutto, quella sarebbe rimasta, immobile ma effimero segnale verso le stelle. La nostra nave calò su quel gigantesco cerchio come una freccia verso il bersaglio.

L’obelisco doveva essere stato alto un migliaio di metri, quando era stato costruito, ma ora sembrava un cero liquefatto; ci volle una settimana per scavare lo strato di roccia fusa, dato che non possedevamo gli strumenti adatti a questo lavoro. Eravamo astronomi, non archeologi, ma capaci di adattarci. Il nostro programma originale era dimenticato: quel monumento solitario, eretto con enorme fatica alla massima distanza possibile dal sole condannato, poteva avere una sola ragione di essere: una civiltà che conosceva il proprio destino e sapeva d’essere prossima alla morte aveva compiuto quell’estremo tentativo per cercare l’immortalità.

Ci sarebbero state necessarie generazioni intere per esaminare tutti i tesori che erano stati raccolti nell’immensa Vòlta. Essi avevano avuto tutto il tempo di prepararsi, perché il loro sole doveva aver dato i primi segni molti anni prima dell’esplosione finale. Tutto quello che avevano voluto preservare, tutti i frutti della loro genialità, ogni cosa avevano portato là, in quel mondo lontano, nei giorni che avevano preceduto la fine, sperando che qualche altra razza li avrebbe scoperti ed essi non sarebbero stati miseramente dimenticati.

Se solo avessero avuto un poco di tempo in più! Potevano viaggiare abbastanza facilmente tra i piani del loro sistema, ma non avevano ancora imparato ad attraversare i golfi stellari, e il più vicino sistema era distante cento anni-luce.

Anche se non fossero stati così tremendamente simili a noi, come ci mostrano le loro sculture, non avremmo potuto fare a meno di ammirarli e di sentirci sconvolti dal loro destino. Avevano lasciato migliaia di registrazioni visive e gli apparecchi per proiettarle, insieme con elaborate istruzioni a disegni per mezzo delle quali non sarebbe stato difficile imparare il loro linguaggio scritto. Abbiamo esaminato molte di queste registrazioni e abbiamo portato alla luce per la prima volta dopo seimila anni il calore e la bellezza di una civiltà che in molte cose deve essere stata superiore alla nostra. Forse ci hanno mostrato solo il meglio ed è difficile biasimarli. Ma i loro mondi erano molto belli, e le loro città erano costruite con un’armonia che superava qualsiasi nostra metropoli. Li abbiamo guardati lavorare e giuocare, abbiamo ascoltato la loro lingua musicale risuonare oltre i secoli; una scena mi è rimasta negli occhi: un gruppo di fanciulli su di una spiaggia di strana sabbia azzurra, che giocano fra le onde come giocano i bambini nella nostra Terra.

E ancora caldo, amico, vivificante, cala nel mare quel sole che avrebbe presto tradito e cancellato tutta questa innocente felicità.

Forse, se non fossimo stati tanto lontani da casa e tanto vulnerabili davanti alla solitudine, non ci saremmo commossi tanto intensamente. Molti di noi avevano visto le rovine di antiche civiltà su altri mondi, ma non era mai accaduto che ne fossimo colpiti tanto profondamente.

Questa tragedia era unica: una cosa era la decadenza e la morte di un razza, così come sulla Terra è avvenuto a nazioni e a culture. Ma essere distrutti in un modo così assoluto nel pieno rigoglioso fiorire, senza lasciare superstiti… come si poteva conciliare questo con la Provvidenza di Dio?

I miei colleghi me lo hanno chiesto, e io ho risposto come potevo. Forse tu avresti potuto far di meglio, Padre Ignazio, ma io non ho trovato nulla negli Exercitia Spiritualia, nulla che possa aiutarmi. Essi non erano un popolo corrotto; non so quali dèi adorassero, né se poi ne adorassero. Ma io li ho guardati attraverso i secoli e ho visto, mentre tornava alla luce del loro sole immiserito, quella generosa battaglia per sopravvivere.

Conosco le risposte che i miei colleghi daranno quando saranno tornati sulla Terra; diranno che l’universo non ha scopo né un disegno e che, dal momento che cento soli esplodono ogni anno nella nostra Galassia, in questo momento esatto qualche razza sta morendo nelle profondità dello spazio. Che quella razza abbia agito bene o male durante la sua esistenza non porterà in fondo alcuna differenza: non c’è giustizia divina, perché non esiste Dio.

Naturalmente, quello che abbiamo visto non porta ancora nessuna prova di questa asserzione; chiunque parli così è semplicemente influenzato dai sentimenti, non dalla logica. Dio non ha bisogno di giustificare le Sue azioni all’uomo. Egli ha costruito l’universo, e può distruggerlo quando vuole. È giudizio temerario, pericolosamente vicino alla bestemmia, affermare che cosa Egli possa o non possa fare.

Questo avrei potuto accettarlo, anche se è duro pensare a interi mondi e popolazioni gettati alle fiamme. Ma a un certo punto anche la fede più profonda deve vacillare: e io so, ora che ho sotto gli occhi i miei calcoli, so di essere arrivato a quel punto.

Non potevamo sapere, prima di aver raggiunto la nebulosa, quanto tempo prima fosse avvenuta l’esplosione. Ora, per l’evidenza matematica e i rilievi sulle rocce di quell’unico pianeta superstite, sono in grado di stabilire la data con estrema precisione. So in quale anno la luce di quest’immane esplosione raggiunse la Terra. E so con quale splendore la supernova, ora ridotta a morte rovine che scivolano via dietro la nostra nave in fuga, sfolgorò nel cielo terrestre. So come deve aver brillato bassa a Oriente prima dell’alba, come un segnale.

Non possono più sussistere ragionevoli dubbi: l’antico mistero è finalmente risolto. Ma Dio, Dio… quante altre stelle avresti potuto cogliere!

Perché hai voluto gettare tra le fiamme quelle genti, per scagliare il simbolo ardente della loro fine sopra Betlemme?