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Katterson si trascinò faticosamente fino al suo appartamento. Gli isolati si susseguivano mentre lui metodicamente metteva un piede avanti all’altro, percorrendo le due miglia tra le macerie degli edifici diroccati e deserti. Teneva una mano sul coltello e lanciava sguardi a destra e a sinistra, notando lo scalpiccio furtivo nelle strade laterali, le forme confuse delle persone seminascoste tra le ceneri e le macerie. Quelle quattro figure, tra cui quella con il sacco, sembravano in agguato dietro ogni lampione, in attesa famelica.

Deviò verso Broadway, prendendo una scorciatoia tra ciò che rimaneva del Parker Building. Cinquant’anni prima, il Parker Building era stata la costruzione più alta di tutti l’emisfero occidentale: i muri massicci semidiroccati erano tutto quello che restava. Katterson passò oltre quello che una volta era stato il più maestoso ingresso del mondo e guardò all’interno. Sui gradini esterni sedeva un ragazzino, intento ad addentare un pezzo di carne. Aveva otto o dieci anni; lo stomaco era teso sopra le costole che risaltavano come l’intreccio di un canestro. Soffocando la propria repulsione, Katterson si domandò che genere di carne stesse mangiando il ragazzo.

Proseguì. Mentre attraversava la Quarantaquattresima, un gatto scheletrito gli passò tra le gambe e scomparve oltre un mucchio di ceneri. Katterson pensò alle storie che aveva sentito, a proposito delle Grandi Pianure, dove si diceva che gatti giganteschi scorazzassero liberi e indisturbati, e gli venne l’acquolina in bocca.

Il sole era basso sull’orizzonte, e New York stava lentamente assumendo una sfumatura grigio-nerastra. Ormai il sole del tardo pomeriggio aveva perso tutto il suo splendore; riusciva a malapena ad insinuarsi tra i cumuli di macerie, gettando una luce spettrale sulle rovine di New York. Katterson attraversò la Quarantasettesima e si diresse verso il suo edificio.

Affrontò la lunga arrampicata fino alla sua stanza (l’ascensore era da tempo bloccato, un lusso che ormai era solo un vago ricordo) e cercò nell’oscurità la targhetta della porta. Dall’interno venne una risata, un suono strano per orecchi che non vi erano più abituati, e fu investito da un forte odore di cibo. Cominciò a deglutire convulsamente e si ricordò di quella massa informe e indolenzita che era il suo stomaco.

Katterson aprì la porta. L’odore di cibo riempiva completamente la piccola stanza. Appena entrato, vide Barbara alzare lo sguardo di scatto, bianca in viso. Nella sua sedia c’era un uomo che aveva incontrato un paio di volte, un tipo con pochi capelli ed una folta barba, di nome Heydahl.

— Che cosa succede? — domandò Katterson.

La voce di Barbara era stranamente soffocata. — Paul, tu conosci Olaf Heydahl, vero? Olaf, Paul.

— Che cosa succede? — ribatté Katterson.

— Io e Barbara abbiamo appena fatto una piccola cenetta, signor Katterson — disse Heydahl con voce profonda. — Abbiamo pensato che avrebbe avuto fame, così gliene abbiamo lasciato un po’.

Il profumo era irresistibile e Katterson stava per avere la schiuma alla bocca. Barbara continuava ad asciugarsi il viso con il tovagliolo; Heydahl sembrava a sua agio nella sedia di Katterson.

In tre rapidi passi Katterson raggiunse l’altro lato della stanza ed aprì la porta del cucinino. Sul fornello un piccolo pezzo di carne sfrigolava piano. Katterson guardò la carne e poi Barbara.

— Dove hai presto questo — chiese. — Noi non abbiamo denaro.

— Io… io…

— L’ho portato io — disse piano Heydahl. — Barbara mi aveva detto che eravate a corto di cibo e dal momento che io ne avevo più di quanto mi servisse, ho portato un piccolo regalo.

— Capisco. Un regalo. Niente in cambio?

— Ma signor Katterson! Si ricordi che sono ospite di Barbara.

— Certo, ma lei per favore ricordi che questo appartamento è mio, non di Barbara. Mi dica, Heydahl, che tipo di pagamento si aspetta per questo… questo regalo? E quanto ne ha già avuto in cambio?

Heydahl fece per alzarsi dalla sedia. — Per favore, Paul — disse Barbara in fredda. — Niente guai, Paul. Olaf stava solo cercando di essere gentile.

— Barbara ha ragione, signor Katterson — disse Heydahl conciliante. — Avanti, si serva. Le farà bene, e renderà felice anche me.

Katterson lo fissò per un momento. La debole luce che proveniva dal basso cadeva sulle spalle di Heydahl, illuminandogli la testa quasi calva e la barba fluente. Katterson si domandò come mai le guance di Heydahl fossero così paffute.

— Avanti — ripeté Heydahl, — noi abbiamo avuto la nostra parte.

Katterson si voltò verso la carne. Prese un piatto dalla credenza e vi fece cadere il pezzo di carne, sfoderando il coltello. Stava per tagliare, quando si voltò a guardare gli altri due.

Barbara si sporgeva in avanti sulla sedia. Gli occhi erano dilatati ed in essi brillava la paura. Heydahl, invece, se ne stava tranquillo nella sedia di Katterson con un’espressione compiaciuta che Katterson non aveva mai visto sul volto di nessuno da quando aveva lasciato l’esercito.

Un pensiero lo colpì, raggelandolo. — Barbara — chiese controllando la voce, — che genere di carne è questa? Manzo o agnello?

— Non lo so, Paul — rispose lei incerta. — Olaf non ha detto cosa…

— Forse cane arrosto? O filetto di gatto randagio? Perché non hai chiesto a Olaf qual era il menù? Perché non glielo chiedi ora?

Barbara guardò Heydahl e poi di nuovo Katterson.

— Mangialo, Paul, È buono, credimi… e io so quanto sei affamato.

— Io non mangio cibi senza etichetta, Barbara. Chiedi al signor Heydal di che genere di carne si tratta, prima.

Lei si voltò verso Heydahl. — Olaf…

— Non credo che dovrebbe fare tanto il difficile di questi tempi, signor Katterson — disse Heydahl. — Dopo tutto, non ci sono più distribuzioni di cibo e lei non sa quando potrà avere di nuovo della carne.

— A me piace fare il difficile, Heydahl. Che genere di carne è questa?

— Perché è così curioso? Lei sa che cosa dice il proverbio: a caval donato… eh, eh.

— Non sono nemmeno sicuro che questo sia cavallo, Heydahl. Che genere di carne è questa? — La voce di Katterson, di solito ben modulata, divenne un ringhio. — Una fettina scelta di un ragazzino grasso? O forse la bistecca di qualche povero diavolo che una sera si è trovato nel posto sbagliato?

Haydahl impallidì.

Katterson prese la carne dal piatto e la tenne in mano per un attimo. — Non riuscite nemmeno a spicciccare parola, nessuno di voi due. Vi si strozzano in gola. Tenete, cannibali!

Lanciò con forza la carne verso Barbara; le sfiorò la guancia e cadde a terra. Il viso di lui fiammeggiava di rabbia. Spalancò la porta, si voltò e la richiuse violentemente dietro di sé, tuffandosi nell’oscurità. L’ultima cosa che vide prima di sbattere la porta, fu Barbara in ginocchio che cercava la carne.

La notte stava calando rapidamente, e Katterson sapeva che le strade non erano affatto sicure. Aveva la sensazione che il suo appartamento fosse inquinato; non poteva ritornarci. Il problema era trovare del cibo. Non aveva mangiato da quasi due giorni. Si cacciò una mano in tasca e trovò il pezzo di carta ripiegato su cui c’era scritto l’indirizzo di Malory, e con una smorfia amara si rese conto che quella era l’unica fonte di cibo e di denaro. Ma non ancora… almeno finché era in grado di reggersi in piedi.

Senza riflettere, si diresse verso il fiume, verso l’enorme cratere dove una volta, così gii era stato detto, sorgevano gli edifici delle Nazioni Unite. Il cratere era profondo almento trecento metri; le Nazioni Unite erano state cancellate durante il primo bombardamento, nel 2028. Allora Katterson aveva appena un anno, e fu allora che scoppiò la Guerra. I combattimenti ed i bombardamenti veri e propri erano continuati per altri cinque o sei anni, finché entrambi gli emisferi non furono completamente devastati, e a quel punto era cominciata la lunga guerra di logoramento. Katterson aveva compiuto diciotto anni nel 2045, nove lunghi anni fa, rifletté, e la sua corporatura gigantesca ne aveva fatto un candidato naturale per un tranquillo posto nell’esercito. Durante la carriera militare aveva girato in lungo e in largo quella parte del mondo che considerava il suo paese: quel pezzo di terra delimitato dalla cintura radioattiva degli Appalachi da un lato e dell’oceano Atlantico dall’altro. Il nemico aveva accuratamente costruito linee di fuoco che suddividevano l’America in una dozzina di strisce, ciascuna completamente isolata dall’altra. Un aeroplano avrebbe potuto attraversarle agevolmente, ma non ne era rimasto neppure uno. La scienza, l’industria, e la tecnologia erano morte, pensò stancamente Katterson mentre fissava il fiume con sguardo vacuo. Si sedette sull’orlo del cratere con le gambe a penzoloni.