Al quinto piano Katterson ebbe un capogiro e si sedette sull’orlo degli scalini, ansimando. Un cameriere in livrea gli passò davanti, con il naso all’aria, la divisa verde che luccicava nella penombra. Su di un piatto d’argento portava un maialino arrosto con una mela in bocca. Katterson barcollò per afferrare il maialino. Le sue mani annaspanti attraversarono le figure del maiale e del cameriere, e queste ultime esplosero come bolle di sapone dileguandosi nei pianerottoli silenziosi.
Ancora un piano. Carne sfrigolante sul fornello, calda, sugosa, tenera carne che riempiva quel buco dove una volta c’era il suo stomaco. Sollevò con cautela le gambe, uno scalino dopo l’altro, e arrivò infine alla cima. Ebbe un attimo di incertezza appena superato l’ultimo gradino, rischiando di cadere all’indietro, ma all’ultimo momento afferrò la ringhiera e si spinse in avanti.
Ecco la porta. Lui la vide, udì dei suoni che provenivano dall’interno. C’era in corso una festa, un banchetto, e lui moriva dal desiderio di parteciparvi. Lungo il pianerottolo, a sinistra, bussare alla porta.
Rumori sempre più forti.
— Malory! Malory! Sono io, Katterson, il grosso Katterson! Sono venuto! Apri, Malory!
La maniglia cominciò a girare.
— Malory! Malory!
Katterson crollò in ginocchio sul pianerottolo e cadde in avanti, quando finalmente la porta si aprì.