— È una follia! — esclamò Horace. — Ve l'ho detto, una follia!
— Capirete — disse Emma. — Noi non abbiamo mai visto gli Infiniti. Ma altra gente li ha visti.
— Emma — spiegò Horace — intende dire che nessuno di noi, qui presenti nella stanza, li ha visti. Altri esseri umani, invece, li hanno visti e si sono convinti delle loro asserzioni: che l'intera razza umana deve trasformarsi in pure entità mentali. Questa convinzione è diventata immediatamente un dogma, una verità di fede. E chi si è ribellato è diventato un fuorilegge.
— Dovete capire — disse Timothy, parlando a bassa voce — che la nostra razza era pronta a un cambiamento come questo. Già prima che gli Infiniti facessero la loro comparsa, la razza umana era cambiata. Nel periodo da cui siamo fuggiti, i concetti filosofici e gli orientamenti mentali erano già molto diversi da quelli antichi. La razza era stanca, esaurita. Aveva fatto troppi progressi, aveva realizzato troppo. Il progresso era ormai una parola priva di significato. Il ritorno alla semplicità era la norma.
— E voi? — domandò Boone.
— Per noi era diverso — disse Timothy. — Noi non siamo caduti nella trappola. Noi eravamo quelli delle retrovie, quelli della terra di nessuno, gli esclusi che non facevano parte della splendida società dell'uomo. Noi volevamo restare come eravamo. Noi ci fidavamo dei nuovi modi di vita. Per questo eravamo esclusi.
— Ma le vostre macchine, i viaggiatori temporali?
— Abbiamo rubato agli Infiniti il concetto di tempo — disse Horace. — Eravamo ancora sufficientemente umani, e potevamo prendere le misure opportune per difenderci. Gli Infiniti non rubano e non dicono bugie. Sono grandi, nobili.
— E stupidi — disse David.
— Sì — disse Horace. — E stupidi. Ma adesso hanno scoperto il nostro nascondiglio, e noi dobbiamo nuovamente fuggire.
— Io non posso andarmene — disse Timothy. — Ho deciso, non me ne andrò. Non intendo abbandonare i miei libri e le mie note, tutto il lavoro che ho fatto finora.
— Timothy — spiegò Enid, rivolta a Bonne — cerca di capire quando e come la razza umana ha sbagliato, come si è infilata nella situazione che porterà tutti, tra un milione di anni, ad accettare l'offerta degli Infiniti. Timothy crede che qui, alle radici della nostra civiltà, si possa trovare la risposta, grazie a uno studio della storia e della filosofia.
— E sono vicino alla soluzione — disse Timothy. — Ne sono certo. Ma non posso andare avanti con il mio lavoro, senza i libri e gli appunti.
— Non c'è posto — disse Horace. — Non possiamo portarci dietro tutti i tuoi appunti, per non parlare poi dei libri. Lo spazio disponibile all'interno dei viaggiatori è riciotto. Abbiamo anche il viaggiatore residenziale di Martin, per fortuna. E il vostro viaggiatore piccolo, naturalmente, oltre a quello di Gahan, se funziona ancora…
— Non credo che abbia dei guasti gravi — disse David. — Anzi, penso che sia intatto. Gahan ha perso il controllo, tutto qui. È atterrato abbastanza bene, su un'aiola.
— Dovremmo controllarlo, comunque — disse Horace.
— Finalmente cominciamo a fare qualche progresso — disse Boone. — Ma occorre prendere delle decisioni. Visto che volete andarvene, qualcuno ha un'idea di dove andare?
— Potremmo raggiungere il gruppo del Pleistocene — disse Emma.
Horace scosse la testa. — No. Atene è distrutta, ed Henry dice che c'è qualcuno che ci cerca. C'è la possibilità che sia stato individuato anche il gruppo del Pleistocene. E anche se non lo è stato, rischiamo di essere seguiti e di aprire la strada a coloro che ci cercano. Io suggerirei di addentrarci ancora di più nel passato, oltrepassando il Pleistocene.
— Io invece penso che dobbiamo andare nel futuro — disse David. — Là potremo scoprire che cosa sta succedendo.
— Per infilarci in pieno nel nido delle vespe — disse Emma.
— Se occorre — disse David. — Probabilmente, nel futuro c'è ancora qualche gruppo come noi: coloro che non sono andati via, e che continuano a rimanere nascosti, cercando di combattere come possono.
— Martin conosce certamente la situazione del futuro — rifletté Horace. — Ma dove diavolo si sarà cacciato?
— Ci occorrerà del tempo per predisporre tutto — disse David. — Non possiamo prendere in quattro e quattr'otto decisioni così importanti.
— Due giorni — disse Horace. — Due giorni, e poi si parte.
— Spero che capirete — disse Timothy, parlando lentamente, con decisione — che io non vado da nessuna parte. Io resto.
5. Il mostro
Boone sedeva su un basso muretto di pietra che divideva un pascolo da un campo. Sul campo trotterellavano allegramente due setter che un po' si rincorrevano tra loro, un po' inseguivano gli uccelli che si sollevavano in volo spaventati dal loro movimento. Il sole del tardo pomeriggio era ancora caldo, il cielo limpido s'incurvava su di loro come una grande cupola turchina.
Boone era andato in giro per Hopkins Acre per un paio d'ore accompagnato dai due cani festosi. Inizialmente si era messo in cammino con l'intenzione di trovare la bolla temporale, di individuare la parete di tempo differenziale, che in qualche punto, si diceva, doveva giungere al livello del suolo. Aveva cercato di camminare in linea retta, fermandosi di tanto in tanto per controllare la sua posizione rispetto a una fila di bastoncini piantati in terra per riferimento. Ma dopo avere camminato per un'ora o poco più, procedendo in quella che a lui sembrava una linea retta, si era accorto con un certo stupore di essere ritornato al punto di partenza.
Quella camminata, comunque, non era stata del tutto inutile. In quell'ora, il paesaggio gli era entrato nel sangue. Era passato molto tempo dall'ultima sua passeggiata in campagna, e la passeggiata gliene aveva riportato alla mente altre, di altri anni, in altre terre. A un certo punto si era imbattuto in un gregge di placide pecore che erano rimaste immobili a osservarlo, con nello sguardo un blando interrogativo, per poi allontanarsi di qualche passo e ritornare a osservarlo mentre si allontanava. Aveva incontrato piccoli rigagnoli, che correvano svelti, di acqua cristallina; aveva attraversato brevi boschetti di alberi eleganti; aveva notato con profonda soddisfazione i fiori selvatici autunnali, che crescevano lungo i ruscelletti, che con le loro corolle parevano annuire perpetuamente nello specchio dell'acqua chiara e sulla riva.
E adesso si era seduto sul basso muricciolo di pietra, a poca distanza dal punto da cui era inizialmente partito. Alle sue spalle c'era la strada che, tra filari di pioppi ormai prossimi a morire, si dirigeva alla casa; davanti a lui c'era la distesa del campo, coperta di stoppie rade. Posando gli occhi su quello spettacolo campestre, ripensò con meraviglia a quanto era stato raccontato loro, a lui e a Corcoran, dagli abitanti della casa. Era una storia fantastica, ardita, che continuava a eludere la sua ragione. Non riusciva a trovare un punto logico da cui iniziare a rifletterci sopra. Poi, in fondo al campo, ai bordi di un boschetto, colse un movimento. Guardando con maggiore attenzione si accorse che era un uomo, e dopo qualche istante riconobbe Corcoran. Attese che salisse fino a lui.