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— Ci sto arrivando. Io avevo altre faccende per la testa, e Martin era scomparso, cosicché ho cercato di dimenticarmi di lui. Ma, un paio di settimane fa, ho letto che intendono abbattere l'Hotel Everest con la dinamite.

Corcoran rivolse un'occhiata a Boone, come per chiedergli se avesse capito. Boone fece un segno d'assenso. Sapeva cosa intendeva l'amico. Mettevano una serie di cariche di dinamite nei pilastri dell'edificio da abbattere. Se il lavoro era fatto bene, la struttura si spaccava in piccoli pezzi, e le pale e i bulldozer potevano portare via con facilità le macerie.

Corcoran sospirò. — La notizia mi ha fatto ritornare in mente Martin. Sono andato a dare un'ultima occhiata nell'edificio. Fino a quel momento avevo lasciato le cose in mano ai miei agenti, e questo è stato un errore. Ricorda quello che ho detto: adesso vedo le cose in modo diverso.

— E hai visto qualcosa? — domandò Boone. — Qualcosa che i tuoi uomini non avevano visto?

— Qualcosa che non potevano vedere. Qualcosa che posso vedere soltanto io, e solo se guardo in un certo modo. Io… talvolta riesco a “vedere” dietro l'angolo, anche se non posso andarci come fai tu. Forse vedo uno spettro più vasto, forse vedo sfasato nel tempo. Secondo te, è possibile fare un piccolo passo in avanti nel tempo, o vedere un poco più in là?

— Non so. Non ci ho mai pensato.

— Già. Comunque, ho visto qualcosa. Una sorta di scatolone: un balcone o una veranda, come spesso se ne vedono sporgere dalla facciata delle case. Era all'esterno dell'appartamento di Martin. Era leggermente sfasato rispetto alla percezione normale: metà nel nostro mondo, metà fuori. E poiché Martin non abitava nell'appartamento, forse abitava in quella sorta di scatola, o quel che era.

Boone sollevò il bicchiere e finì il suo scotch. Poi lo appoggiò con attenzione sul tavolo. — Tu pensi che io possa fare il giro dell'angolo che porta in quella scatola.

Corcoran annuì.

— Non sono certo di poterlo fare — gli disse Boone. — Non ho mai usato consapevolmente la mia abilità. È sempre entrata in funzione quando ero in grave pericolo… una sorta di meccanismo di sopravvivenza. Non so se posso farlo a richiesta.

— Ti chiedo solo di provare — disse Corcoran. — Ho già esplorato tutte le altre possibilità. Adesso l'albergo è vuoto e ci sono delle guardie, ma so come entrare. Ho passato un mucchio di tempo al suo interno, a cercare, ad ascoltare, a bussare e a fare buchi, per scoprire il modo di entrare in quella scatola. Nessun risultato. Quando guardo fuori dalla finestra a cui è attaccata la scatola, non vedo niente: solo la strada. Ma se esco all'esterno e guardo in su… la scatola ricompare.

— Jay, che cosa cerchi? Che cosa pensi di trovare in questa tua cosiddetta scatola? — domandò Boone.

Corcoran scosse la testa. — Non lo so. Magari non c'è niente. Martin è diventato la mia ossessione privata. Probabilmente la cifra che ho speso nel corso degli anni per trovare informazioni su di lui supera la somma che lui mi ha dato. Ma adesso è ancora peggio. Tom, io devo assolutamente entrare in quella scatola!

S'interruppe e si mise a fissare il bicchiere vuoto. Poi sospirò e alzò nuovamente lo sguardo. — Il guaio è che non abbiamo molto tempo. È già venerdì sera, e l'esplosione è prevista per domenica mattina, poco prima dell'alba, quando non c'è nessuno per strada.

Boone fece un fischio. — Ci sei quasi.

— Non ho potuto evitarlo. Ho incontrato molte difficoltà per rintracciarti. Quando ho saputo che ti dirigevi a Singapore, ho mandato un telegramma a tutti gli alberghi nei quali c'era possibilità di trovarti. E adesso, se vogliamo ancora fare qualcosa, dobbiamo muoverci in fretta.

— Domani, sabato — assentì Boone.

— Diciamo domani sera. Durante il giorno fanno dei servizi televisivi sulle ultime ore del grande albergo. La zona sarà piena di giornalisti e cameramen. Noi entreremo quando se ne saranno andati tutti.

Si alzò, radunò i bicchieri e li portò nell'angolo bar, fornitissimo. — Sei mio ospite, naturalmente — disse.

— Ci contavo — rispose Boone.

— Bene. Allora, berremo ancora un bicchiere, e magari ci dedicheremo alla commemorazione dei vecchi tempi. Poi ti mostrerò la tua stanza. E fino a domani sera ci scorderemo della scatola.

2. Hopkins Acre: 1745

David vagava nei campi fin dal primo pomeriggio, accompagnato dal suo setter favorito, godendosi il piacere di essere solo in un mondo bello e ordinato.

Dalle stoppie ai suoi piedi si levò un gallo cedrone, con uno stormire d'ali. Automaticamente, David si portò alla spalla il fucile e accostò la guancia al calcio. Quando il mirino si allineò sulla figura del volatile, David assestò un violento scrollone alla canna, verso sinistra. — Bang! — disse. Se nella camera ci fosse stata una cartuccia e lui avesse premuto il grilletto, l'uccello sarebbe caduto a terra.

Il setter, pavoneggiandosi, fece ritorno a lui dal punto dove aveva stanato il gallo; si sedette davanti a David, sollevando lo sguardo e ridendo alla sua maniera, come per dire: «Non è uno spasso?».

C'era voluto molto tempo, ai setter di Hopkins Acre, per adattarsi. Erano stati allevati per puntare gli uccelli e per riportare quelli colpiti. Non avevano capito bene la nuova procedura. Ma adesso, dopo varie generazioni di setter, le cose erano cambiate. Non aspettavano più lo sparo del fucile, e sapevano di non poter trovare uccelli morti.

Così, per la millesima volta, David si domandò perché portava sempre con sé il fucile. Gli piaceva sentire il suo peso, gli piaceva la forma del calcio che si sposava alla sua spalla? O era per confermare a se stesso di essere davvero una creatura civile, benché appartenesse a una stirpe caratterizzata da una lunga storia di crudeltà e di brutalità?

Ma anche quella era solo una posa, e per di più ingiusta. Lui non uccideva le pecore, ma mangiava l'abbacchio. Era pur sempre un carnivoro, e un carnivoro era un uccisore.

Era stata una buona giornata, anche senza prendere alcun uccello, si disse. David era salito sulla collina, e da lassù aveva posato lo sguardo sulle capanne coperte di paglia del villaggio dove abitavano i coltivatori della terra e gli allevatori di pecore e mucche. Nei pascoli aveva visto gli animali, a volte soli, a volte sorvegliati da un ragazzo e da un cane. Nei boschi fitti aveva incontrato delle orde di maiali, selvatici come cervi, intenti alla ricerca di ghiande cadute. Ma non si era avvicinato. Nonostante il tempo passato, non riusciva a provare fratellanza per i pacifici contadini che lavoravano la terra. Aveva visto il colore dei boschi cambiare con l'autunno e aveva respirato l'aria gelida. Era sceso ai ruscelli che scorrevano nei boschi e si era dissetato alla loro acqua, fissando l'ombra guizzante della trota.

Poco prima aveva scorto Spike intento a giocare qualche suo ridicolo gioco, saltando con molta attenzione secondo figurazioni incomprensibili. David si era fermato a osservarlo, e ancora una volta si era chiesto che creatura potesse essere Spike.

Poi, stanco del gioco, Spike si era allontanato, e si era diretto verso una macchia di alberi, saltellando secondo uno schema casuale che era molto più aggraziato e spontaneo del movimento programmato di prima. Il sole del pomeriggio autunnale si rispecchiava sul suo corpo globulare, e le punte aguzze delle sue lunghe spine catturavano i raggi del sole, disperdendoli tutt'intorno sotto forma di scintille. David aveva provato a chiamarlo, ma evidentemente Spike non l'aveva sentito, perché era sparito in mezzo agli alberi.

La giornata era stata piena di avvenimenti, si disse David, e ormai le ombre si allungavano e scendeva il freddo. Era tempo di ritornare a casa.

Quella sera c'era l'arrosto. Sua sorella maggiore, Emma, moglie di Horace, l'aveva avvertito di arrivare in tempo.