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— Proprio qui vi volevo. Non afferma di sapere dov'è Boone. Dice che ci indicherà dove cercarlo. Sono due cose diverse.

— In effetti, sì. Cosa ne dici, tu? Che esattezza hanno le tue informazioni?

“Sono disposto ad aiutarvi come posso. L'aiuto che vi offro non si limita alla ricerca di Boone”.

— Che altro tipo di aiuto? Come ci puoi aiutare?

— Lasciate perdere — brontolò Corcoran. — Non dategli retta. Si trova nei guai ed è disposto a promettere qualsiasi cosa per uscire.

“Per la carità umana” piagnucolò il mostro “dovete avere pietà di me. Non dovete condannarmi a interminabili epoche di privazione di stimoli esterni. Non posso vedere; a parte questa comunicazione telepatica, non posso udire. Non sento né il caldo né il freddo. Anche il trascorrere del tempo mi sembra irregolare. Non riesco a distinguere un secolo da un anno”.

— Sei davvero messo male — disse Corcoran.

“Sì, sì. Gentile, signore, cercate di provare un po' di simpatia per me!”

— Non sono disposto ad alzare una mano per aiutarti. O un dito.

— Siete molto duro con lui — disse David.

— Meno di lui ad Atene. Meno di lui se ci avesse trovato… se non avesse combinato un pasticcio.

“Non ho combinato nessun pasticcio. Sono un meccanismo efficiente. Solo, non ho avuto fortuna”.

— Esatto — disse Corcoran. — E continui ad averne sempre di meno. Adesso chiudi il becco. Non vogliamo più sentirti.

Il mostro tacque. Non sentirono più la sua voce.

Dopo qualche tempo, David disse: — Henry non è ancora tornato. Noi due siamo soli. Il mostro telepatico dice di avere delle informazioni. Credo che si possa ragionevolmente dargli retta. Era qui nel periodo in cui c'era anche Boone. Può avergli parlato.

Corcoran brontolò qualcosa di inudibile. — Non state a convincervi della necessità di mostrarvi magnanimo verso un nemico sconfitto, di agire nobilmente, da gentiluomo. Comunque, il collo è vostro, se volete rischiarlo. Io me ne lavo le mani. Fate quel che volete.

Il sole era tramontato ed era sceso il buio. In qualche punto di quelle terre desolate, un lupo ululò, e un altro gli fece eco. Corcoran finì di mangiare. — Datemi il piatto e le posate — disse a David. — Vado alla fonte a lavarli.

— Volete che venga con voi per coprirvi le spalle?

— No, non c'è pericolo. Sono pochi passi.

Curvo accanto alla fonte, Corcoran sciacquò i piatti. A est stava alzandosi la luna. Lontano, cinque o sei lupi si lamentavano in coro di quella vitaccia grama e triste.

Quando ritornò accanto al fuoco, vide che David aveva portato le coperte. — È stata una giornata lunga — disse — e dovremmo dormire un poco. Io farò la guardia per primo. Penso che sia preferibile che uno di noi stia di guardia.

— Sono d'accordo — disse Corcoran.

— Sono preoccupato per Henry — continuò David. — Sa che in una situazione come questa non dovremmo dividere le nostre forze.

— Probabilmente si sarà fermato per qualche suo motivo — disse Corcoran. — Domattina sarà qui, e tutto ritornerà a posto.

Piegò la giacca per usarla come cuscino e si coprì la faccia con la coperta. Qualche istante più tardi, dormiva.

Quando si svegliò, era steso sulla schiena. In alto, il cielo era rischiarato dalla prima luce dell'alba, e David non l'aveva chiamato alla fine del suo turno di guardia.

Accidenti a lui, pensò Corcoran. Non doveva comportarsi n modo così infantile. Non doveva dimostrare a nessuno di riuscire a fare la guardia per tutta la notte, o di essere migliore degli altri.

— David! — gridò. — Maledizione, cosa volete combinare?

Sulla collinetta, gli uccelli cantavano per annunciare l'alba, salutando la prima luce che rischiarava la parte orientale del cielo. A parte quel canto, non c'era alcun suono, e il tremolio delle ultime fiamme del falò era l'unico movimento visibile. Sul pianoro, le ossa bianche del bisonte erano rischiarate dalla luce dell'aurora; poco più a destra si scorgevano i rottami del mostro assassino.

Corcoran scostò la coperta e si alzò in piedi. Si diresse verso il fuoco, prese un pezzo di legno per riunire le braci e si inginocchiò accanto a esse. Fu in quel momento che udì un suono che lo fece rabbrividire per il terrore. Una sorta di risucchio che non aveva mai udito in precedenza e che non avrebbe saputo definire, ma che conteneva una minaccia. Il suono si ripeté, e questa volta Corcoran riuscì a girare la testa per vederne l'origine.

Per un momento, l'unica cosa che riuscì a vedere fu una macchia chiara, curva sopra una macchia scura distesa sul terreno. Cercò di vedere meglio, ma non riuscì a scorgere altro finché la macchia pallida non sollevò la testa e non lo fissò. Allora la riconobbe: muso felino e piatto, orecchi sormontati da ciuffi di peli, luccichio di zanne lunghe come il palmo di un uomo. Era una tigre dai denti a sciabola, curva sulla preda, intenta a divorarla con quel terribile risucchio che indicava quanto giudicasse gustoso il pasto.

E Corcoran conosceva la preda di quella tigre. Laggiù sotto le zanne e gli artigli della belva, c'era David!

Stringendo in mano un bastone raccolto in mezzo al mucchio di legna da ardere, Corcoran si alzò lentamente in piedi. Impugnò meglio la sua arma. Era un'arma ridicola, ma non aveva altro. Anche la tigre si sollevò sulle zampe. Era molto più grossa di quanto gli fosse sembrato. Era spaventosa. Posò la zampa sulla macchia scura che era David e fece qualche passo in avanti. Poi si fermò e ringhiò, e le lunghe zanne scintillarono nella luce fioca. Le zampe anteriori del felino erano più lunghe di quelle posteriori: l'animale aveva la schiena inclinata e sembrava seduto anche quando era ritto. Ormai la luce era sufficiente, e Corcoran riuscì a scorgere la sua pelliccia maculata: cerchietti color marrone scuro sullo sfondo del mantello fulvo.

Corcoran non si mosse. Dopo i primi passi anche la tigre rimase ferma. Poi, lentamente, come se non fosse ancora sicura delle proprie azioni, la bestia girò su se stessa. Ritornò alla sua preda, abbassò la testa, afferrò con i denti la macchia scura distesa sul terreno e mosse un poco la mandibola per afferrarla più saldamente. I denti affondarono nella preda, la testa del felino si sollevò: poi la tigre si allontanò lentamente dall'uomo accanto al fuoco, portando la sua preda con sé.

Corcoran dovette limitarsi ad assistere, senza riuscire a muovere neppure un muscolo. La tigre si allontanò trotterellando. Teneva la testa sollevata, per evitare che la sua preda toccasse il terreno. Ma una delle gambe scivolò a terra, e per due o tre volte la tigre inciampò. Poi arrivò alla base della collinetta, sparì dietro una parete di roccia… e non ricomparve più.

Soltanto dopo avere visto allontanarsi la tigre, Corcoran riuscì finalmente a muoversi. Si inginocchiò accanto al fuoco e lo alimentò con altri pezzi di legno. Presto le fiamme si alzarono di nuovo. Si guardò attorno, e vide che il viaggiatore era sempre al suo posto. A una decina di metri dal fuoco c'era anche il fucile. Non lo aveva notato fino a quel momento, sia perché era buio, sia perché aveva avuto occhi soltanto per la tigre. Ma non si alzò per andare a prenderlo. Era ancora paralizzato dalla paura.

Lentamente, cominciò a capire l'assurdità di quanto era successo. Ucciso da una tigre! Ucciso e divorato da una tigre! Ucciso né per rabbia né per difesa, e neppure in un accesso di furia omicida, ma ucciso per il suo valore alimentare.

David era morto. David… e poi? Con sorpresa, Corcoran ricordò solo in quel momento che non conosceva il cognome di David. A Hopkins Acre, nessuno aveva mai pensato di dirlo, e lui non lo aveva mai chiesto. Li elencò mentalmente: David, Enid, Timothy, Emma e Horace. Anche se l'elenco non era esatto: il cognome di Horace era diverso.

Invece di chiamarlo, David l'aveva lasciato dormire. Se mi avesse chiamato, pensò Corcoran, la tigre avrebbe ucciso me al posto suo.