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Il lupo lo fissò con occhi ardenti, e ringhiò.

— Non è questo il modo di fare conversazione — gli disse Boone. — Io non ti ho mai ringhiato. Abbiamo viaggiato assieme e abbiamo condiviso il cibo e siamo amici.

Fino a quel momento si era tenuto sollevato sui gomiti, ma ora si lasciò cadere a terra, girando la testa verso il lupo: non perché temesse l'animale, ma soltanto per tenersi in contatto con l'unico compagno che aveva.

Come poteva avere dormito in una situazione come la sua, con la gamba intrappolata in un crepaccio e un lupo che attendeva la sua morte per mangiarselo? Ma forse, si disse, questa era una calunnia nei riguardi del lupo, perché loro due erano amici.

La gamba gli faceva male. Non più un dolore acuto, ma una pulsazione sorda. Si sentiva malissimo: gli faceva male la gamba, aveva lo stomaco vuoto, la gola gli bruciava e la bocca asciutta. E a poca distanza da lui c'era l'acqua corrente.

Il lupo si era seduto, con la coda ordinatamente avvolta sulle zampe, la testa piegata di lato, gli orecchi in avanti.

Boone chiuse gli occhi. Appoggiò la guancia contro il terreno. Cercò di cancellare dalla mente il dolore. A parte il rumore dell'acqua corrente, tutto taceva. Cercò di non pensare a quell'acqua.

Che schifosa maniera di morire, pensò. Poi dormì un poco.

Era caduto a terra, non aveva alcuna arma a portata di mano. E su di lui piombava al galoppo un cavaliere uscito dal profondo dei suoi ricordi, un uomo gigantesco in sella a un cavallo piccolo e nervoso. Il cavallo gli mostrava i denti ed era altrettanto feroce e deciso quanto l'uomo che lo montava.

La bocca del cavaliere era aperta in un grido di trionfo, i suoi denti mandavano bagliori alla luce di un fuoco invisibile. I lunghi baffi ondeggiavano al vento della corsa, e la lucida, pesante spada che teneva sollevata al di sopra della testa cominciava a scendere.

Poi comparve il lupo, che con la bocca schiumante spiccò un balzo per afferrare il cavaliere per la gola. Ma ormai era troppo tardi. La spada stava calando su di lui, e non c'era niente al mondo che potesse fermarla.

Boone toccò terra pesantemente e faticò a riprendere fiato. La sua vista era piena di grigio. Giaceva su una superficie piana. Quando provò a muoversi, si accorse di avere la gamba liberata. Era libero, e si trovava in un luogo diverso: non era più ai piedi di una montagnola, con le rocce dietro di lui e in basso l'acqua corrente.

Udiva ancora il rumore dell'acqua, e si mosse in quella direzione. Quando raggiunse l'acqua, si stese sulla pancia e abbassò la testa per bere, ma si costrinse a berne soltanto pochi sorsi, per evitare una congestione. Poi si allontanò.

Si stese sulla schiena a fissare il cielo grigio. Ma non erano nubi: era il colore di quel cielo. Tutto era grigio. Si tastò la gamba che era rimasta imprigionata: gli faceva male, ma non era rotta. Si era dissetato. Aveva fame. Tutto il resto sembrava a posto.

Era successo ancora una volta: aveva girato dietro l'angolo. Si era salvato ancora una volta.

Ma cosa significava il cavaliere armato di spada, con quei baffi sventolanti e quel suo galoppo? Non c'era nessun cavaliere: non poteva essere, così lontano nel passato. Era stato il suo subconscio a immaginarlo, si disse: la parte astuta e misteriosa della mente umana. Non c'era alcun pericolo immediato, e dunque non poteva entrare in azione la sua capacità di «girare dietro l'angolo». Ma il suo subconscio, per salvargli la vita, aveva fatto comparire nella sua immaginazione il guerriero a cavallo, il barbaro, e il suo cervello aveva reagito automaticamente. Pensando a ciò che gli era successo, sembrava la risposta logica. Comunque, logica o no, la cosa aveva poca importanza. Lui era lì, dovunque fosse quel posto, e soltanto questo era importante. Adesso il problema era capire se era destinato a rimanere laggiù o se sarebbe stato di nuovo trasferito nel mondo della preistoria. In passato aveva sempre fatto ritorno al luogo d'origine, tranne l'ultima volta, allorché era entrato con Corcoran nel viaggiatore di Martin ed era rimasto laggiù, anziché fare ritorno alla stanza dell'Hotel Everest, che nel frattempo era crollata. Forse, pensò, la serie s'era interrotta. Era in quel luogo già da diverso tempo.

Ritornò all'acqua per bere di nuovo. L'acqua era buona, fresca, pulita. Poi, lentamente, si alzò in piedi. Si appoggiò sulla gamba che era rimasta incastrata nel crepaccio e vide che riusciva a reggerlo. Gli faceva male, ma fondamentalmente era in condizioni normali. Era stato fortunato, pensò.

Si guardò attorno. Sembrava un luogo abbastanza concreto. In altri casi, con la sola eccezione dell'Hotel Everest, che era stato un caso speciale, il posto dietro l'angolo era sempre stato nebuloso e indistinto. Ma qui non c'era nebbia. Era sempre un luogo grigio, ma il grigiore aveva forma e struttura.

Era fermo in mezzo a un piano. Senza dubbio, quel piano giungeva fino all'orizzonte, ma non c'era modo di determinarlo perché il grigiore del cielo si fondeva con quello della pianura e non si scorgeva la linea di demarcazione. Il ruscello a cui si era dissetato correva serpeggiando lungo la pianura: non aveva origine e sembrava non aver fine. Sulla pianura si scorgeva una strada: dritta, e non serpeggiante. Anch'essa era grigia, ma sulla sua superficie si scorgevano due righe più scure, che dovevano essere i segni lasciati dalle ruote dei veicoli. Questi solchi erano precisi e regolari, più diritti di quelli lasciati a caso dalle ruote dei carri.

— Che diavolo di posto è questo? — si domandò Boone, parlando ad alta voce, ma senza aspettarsi nessuna risposta.

La strada poteva essere percorsa nell'una o nell'altra direzione, e probabilmente lui avrebbe fatto bene a seguirla, ma quale direzione prendere?

L'intera situazione era assurda, si disse. Non aveva idea del luogo dove si trovava, e non sapeva dove andare. Non sapeva da quanto tempo era arrivato. C'era acqua, ma non c'era cibo.

Si allontanò dal ruscello e andò a osservare la strada. Inginocchiandosi, toccò quelli che gli erano sembrati solchi. Non riuscì a distinguere, con lo sguardo, la loro altezza rispetto al livello del suolo, ma le sue dita gli dissero che sporgevano di due o tre centimetri. Al tatto, parevano fatti dello stesso materiale di cui era fatta la pianura, ma sporgevano. Che si trattasse di una specie di rotaie? si domandò. Forse, aspettando abbastanza a lungo, poteva giungere qualche veicolo, ma lui non poteva certo affidarsi a un'eventualità come quella.

Poi prese la decisione di seguire la strada nella direzione in cui correva il ruscello. Seguire il corso dell'acqua. L'acqua, aveva detto qualcuno, molto tempo prima, correva verso la civiltà. Segui un fiume, e prima o poi incontrerai gente. Forse, in quel luogo, il ragionamento non era giusto. Forse non c'era nessun posto dove arrivare.

Proseguì per qualche tempo lungo la strada, e non accadde niente. Il ruscello a volte si avvicina alla strada, a volte se ne allontanava; c'erano solo la strada e il ruscello.

Udì un leggero rumore dietro di sé e si affrettò a voltarsi. Sembrava il rumore che fanno le unghie di un animale su una superficie dura, e lo era davvero. C'era un lupo che lo seguiva. Che fosse proprio quel lupo? Gli diede un'occhiata, ma non riuscì a determinarlo. Il lupo era grigio come quello di prima, ma la cosa non significava niente. Laggiù ogni cosa era grigia. Prima era sempre stata marrone.

Il lupo si era fermato e si era seduto a meno di due metri da lui: Si avvolse la coda sulle zampe e osservò Boone, piegando la testa. Aprì le labbra e mostrò i denti.

— Sono lieto che il posto ti piaccia — disse Boone. — Forse puoi dirmi dove ci troviamo.

Il lupo non disse niente. Si limitò a rimanere seduto e a sorridere.

— Sei il lupo che conosco — disse Boone. — Se lo sei, ringhia contro di me.

Il lupo sollevò il labbro per ringhiare, poi ritornò a sorridere. Quando ringhiò, mostrò a Boone un'impressionante quantità di denti.