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— Volete dire che non possiamo uscire?

— No, questo no. Basta girare qui dentro per un po' di tempo, e alla fine ci si trova fuori. Ma non è facile.

Quante sciocchezze, si disse Boone. Il problema, nonostante quei discorsi sulla grande complicazione, era abbastanza semplice. Eppure, quando si guardò attorno, capì cosa volesse dire Muso di Cavallo. C'erano troppi punti di riferimento: non una singola stella, una singola nube di polvere cosmica, una singola macchia d'oscurità, che lui riuscisse a ricordare. Ce n'erano troppe, e parevano tutte uguali. E ogni cosa sembrava leggermente diversa da quando l'aveva guardata l'ultima volta.

Come se avesse letto nei suoi pensieri, Enid disse:

— Certo ci sarà qualche punto di riferimento che ricorderete.

— Sì — disse Boone. — C'era una stella che era contrassegnata con una X.

— Una X?

— Sì, una X. Come se qualcuno l'avesse scritta sulla stella per contrassegnarla. Era una stella normalissima. Una stella della sequenza principale delle luminosità stellari. Gialla. Probabilmente tipo G, come il nostro sole.

— Non me l'avete detto.

— Me ne sono dimenticato quando mi avete detto che avevate perso di vista la linea bianca.

— E voi — domandò Muso di Cavallo, rivolto a Enid — avete visto una stella con una X?

— No — disse lei. — Non l'ho vista. E poi, che idea, scrivere una X su una stella!

Muso di Cavallo si rivolse a Boone: — Non ricordate altro?

— No — disse Boone.

— Semplice allora — disse Muso di Cavallo. — Io sono rimasto sempre fermo in questo punto, senza muovermi, dal momento del mio arrivo. Quindi abbiamo un punto di riferimento. Quando mi avete visto, avevo la schiena girata verso di voi?

— Sì — disse Enid.

— Allora è facile — disse Muso di Cavallo. — Mi girerò di 180 gradi e procederemo in quella direzione.

Boone alzò le spalle. Gli sembrava una cosa troppo semplice. Non prendeva in considerazione altri fattori. Ma non aveva altre vie da suggerire.

— Si può fare la prova — disse.

Tutt'e tre si voltarono e s'incamminarono nella direzione opposta a quella da cui erano venuti. Era facile andare avanti. Non c'era da vincere nessuna corrente. Boone continuava a non sentire nessuna superficie solida sotto i piedi, e udiva ancora il canto delle stelle, ma non vi prestò attenzione.

Raggiunsero la zona “piana”, dopo quella “in discesa”, e Boone proseguì. Aveva fretta di uscire da quel labirinto delle illusioni.

— La linea! — esclamò all'improvviso Enid, dietro di lui. — Vedo di nuovo la linea!

Boone si voltò indietro e vide i due compagni, fermi in mezzo alle stelle, che fissavano la linea. Adesso la vedeva anche lui. Lui era da una parte della linea, e i compagni erano dall'altra: evidentemente, lui l'aveva attraversata senza accorgersi della sua presenza.

Ritornò indietro, e si affiancò ai compagni. Tutt'e tre fissarono la linea, in silenzio.

— Adesso — disse Enid — possiamo basarci sulla linea per ritornare al punto di partenza. Siamo stati fortunati.

— Niente da stupirsi — disse Boone. — Camminavamo in linea retta.

Muso di Cavallo sbuffò. — Sempre la linea retta. Vi ho detto e ripetuto che la linea retta…

Boone non ascoltò la sua filippica. Guardando in “avanti” scorse nuovamente la nova o supernova che lui ed Enid avevano visto all'andata. Nei pressi c'era una certa stella gialla.

Si diresse verso la supernova, per indicare ai compagni l'altra stella.

— Dove andate? — gli chiese Enid.

— Venite — disse, senza voltarsi, per non perdere d'occhio la piccola stella. — Vedrete la stella con la X.

Si sentì un po' sciocco, perché non era certo che fosse proprio quella stella. C'era un mucchio di stelle gialle. Se ne vedevano dappertutto.

Ma poi non si preoccupò più. Scorse la X segnata accanto alla stella.

— Dev'essere una stella importante — ammise Muso di Cavallo, fermandosi accanto a lui. — Altrimenti, perché mettere il segno?

— È uguale a un altro milione di stelle della sua classe — disse Boone. — Per questo la cosa sembra strana, e temevo di non avere visto bene. La stella sembra uguale a tutte le altre.

— Forse non è la stella che è importante — disse Muso di Cavallo. — Forse la stella ha dei pianeti, e uno di questi è importante. Ma un pianeta è troppo piccolo per essere visibile in questa carta stellare.

— Un momento — disse Enid. — Forse c'è il modo di vederlo.

Sollevò la scatola scura e la puntò verso la stella. Poi emise un'esclamazione di sorpresa.

— Ecco! — disse. — C'è un pianeta.

Boone si avvicinò a lei e fissò il “televisore”. Vide la forma di un pianeta, che si allargò fino a riempire lo schermo. Continuò a espandersi, e Boone ed Enid videro cosa c'era sulla superficie.

— Una città — commentò Muso di Cavallo. — Quel pianeta ha una città.

Immense strutture parvero protendersi verso di loro.

— Il luogo è quello — disse Muso di Cavallo, a voce bassa, ma in tono ansioso. — È laggiù che ci porta la linea.

— E una volta arrivati? — domandò Enid.

Muso di Cavallo le rispose: — Chi lo sa?

Enid abbassò il televisore e lo schermo si oscurò.

— Torniamo indietro — disse Muso di Cavallo — orientandoci sulla linea. Poi saliamo sulla rete…

— Un momento — disse Boone. — Bisogna discuterne. Bisogna pensarci bene.

Ma Muso di Cavallo non era più lì ad ascoltarlo. Stava già allontanandosi.

Boone guardò Enid. — Avete ragione — disse lei. — Bisognerebbe discuterne, prima.

— Allora, prima usciamo di qui — disse Boone.

Si avviarono verso l'uscita, più lentamente di Muso di Cavallo, ma abbastanza in fretta. Entrambi erano ansiosi di allontanarsi dalla carta stellare.

Cominciarono a scorgere davanti a loro, debolmente, il grigiore del luogo da cui erano partiti. Poi scorsero l'edificio cubico e i tavoli con le sedie. E dietro i tavoli la forma di Lupo, con accanto il robot dalla testa piatta.

Soltanto quando sentì sotto i piedi la superficie solida, Boone fu certo di essere finalmente uscito dalla carta. Fece ancora qualche passo e disse a Lupo: — Come va? È successo qualcosa d'importante, mentre ero via? — Lupo era seduto a terra e accanto a lui c'era la forma immobile di Cappello, floscia e bistrattata.

Non si scorgeva Muso di Cavallo da nessuna parte, ma la vettura tramviaria stava arrivando. Sul sedile anteriore c'era una persona.

10. Timothy

Il portello ruotò sui cardini e divenne una rampa, Horace fece per scendere, ma si fermò dopo il primo passo.

Dietro di lui, Emma chiese con voce stridula: — Dove siamo?

— Non lo so — rispose Horace.

Comunque, pensò, la domanda era male formulata. Avrebbe dovuto chiedere non “dove” erano, ma in che anno erano.

Non avrebbe dovuto commettere un errore così grossolano, si rimproverò. Certo, la situazione era critica, ma ci sarebbe stato tempo a sufficienza per impostare le coordinate della destinazione. Ovviamente non avrebbe potuto riflettere con calma come desiderava, ma era stato comunque imperdonabile: si era lasciato prendere dalla smania di fuggire lontano da quel mostro assassino che gli stava alle calcagna.

Ma non l'aveva fatto per paura, si disse. L'aveva fatto per un assennatissimo desiderio di allontanarsi in fretta. Di lui, si disse Horace, si potevano dire molte cose: che era pomposo, probabilmente, perché a volte pareva darsi eccessiva importanza; che era ostinato, anche se in molti casi l'ostinazione era un pregio e non un difetto; che era pignolo, forse, perché stava sempre molto attento a ciò che faceva. Ma l'unica cosa che non si poteva dire di lui era che fosse un codardo.