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Dopotutto, pensò, tutto era sempre andato per il meglio finché non erano comparsi sulla scena i due uomini del ventesimo secolo. Probabilmente, comunque, la colpa era di Martin, che avrebbe dovuto sapere cosa succedeva. Ma era chiaro che Martin non se n'era accorto, non aveva avuto alcun sospetto finché Corcoran non gli aveva dato l'imbeccata dicendogli che c'era gente che cercava Hopkins Acre. E a quel punto cosa aveva fatto Martin? Se l'era squagliata, portando Stella con sé. Pensando a questo, Horace cominciò a sentirsi meglio. Aveva trovato qualcuno a cui dare la colpa. Lui, Horace, non aveva alcuna responsabilità.

Fece qualche passo verso il basso, ma senza lasciare la rampa nell'eventualità che si rendesse necessaria una ritirata strategica.

Il viaggiatore era fermo sul fianco di un'altura, poco al di sotto della cima. Sotto di lui si stendeva una piccola valle, dove sorgeva un edificio tozzo e largo, a un solo piano, con molti spigoli e molte ali, come se una volta terminata la costruzione gli architetti avessero aggiunto a caso una serie di ampliamenti.

Osservandola, con una certa sorpresa Horace riconobbe uno dei monasteri costruiti dagli Infiniti. Forse non erano monasteri nel senso rigoroso del termine, ma la gente li chiamava così perché gli Infiniti sembravano piccoli monaci gobbi.

Nella valle non c'era niente che si muovesse. Era vuota. Qua e là crescevano rare macchie d'erba e arbusti; ma non c'erano alberi, anche se rimaneva qualche ceppo consumato dalle intemperie a contrassegnare il punto dove qualche albero era cresciuto in passato.

Il sole era nascosto dietro uno spesso banco di nubi, ma, mentre Horace osservava, le nubi, si aprirono per un istante e l'astro si affacciò. Lungo tutta la cresta dei monti, e dal lì fino al cielo, si scorgevano un tremolio e uno scintillio, come se ci fosse stata una tenda luccicante di lustrini.

Dietro di lui, Timothy disse tranquillamente, come se parlasse di una cosa di tutti i giorni: — Laggiù puoi scorgere ciò che resta di milioni di individui della nostra razza. Ciascuna di quelle scintille è un essere umano smaterializzato, collocato lassù per tutta l'eternità.

— Non sai e non puoi dirlo — obiettò Horace, attirato e insieme respinto da quello spettacolo bellissimo e atroce. — Non abbiamo mai visto un'entità incorporea.

— Ho visto nostro fratello Henry — disse Timothy. — Lui è un gruppo di scintille come quelle, un uomo che non è arrivato fino all'ultima fase della smaterializzazione. Se ci fosse arrivato oggi sarebbe ridotto a una sola scintilla.

Timothy aveva ragione, si disse Horace. Timothy aveva sempre ragione, e la cosa era irritante.

— Se leggo bene i dati — disse Timothy — siamo molto avanti nel futuro, circa cinquantamila anni dopo la nostra epoca.

— Allora — disse Horace — gli Infiniti hanno vinto. Questa è la fine di tutto. Noi umani non siamo riusciti a fermarli.

Dall'interno del viaggiatore si udì la voce di Emma: — Voi due, toglietevi dal passaggio. Arriva Spike. Non c'è spazio per tutt'e tre.

Horace si guardò alle spalle. Spike, sempre più simile a un porcospino girevole, era già sulla rampa. Horace si affrettò a scendere a terra, e Timothy seguì il suo esempio. Spike si avviò lungo la discesa.

— Quello va laggiù a combinare un pasticcio — disse Horace. — È sempre stato un irresponsabile. Gli Infiniti del monastero non ci hanno ancora avvistato.

— Non sappiamo se ci hanno avvistato oppure no — disse Timothy. — Può darsi che non sia rimasto nessun Infinito. A giudicare dai punti di luce nel cielo, hanno finito il lavoro e se ne sono andati. Quello che abbiamo visto, probabilmente, è soltanto uno dei gruppi degli smaterializzati. Nel mondo ce ne devono essere molti altri.

Emma scese dalla rampa per unirsi a loro. — Abbiamo aspettato troppo — disse. — Dovevamo partire prima. Dovevamo scegliere bene il luogo e il momento di destinazione, invece di partire così in fretta, senza sapere dove si arrivava.

— Io conto di tornare indietro alla prima occasione — disse Timothy. — Venire con voi è stato un errore. Ci sono i miei libri e i miei appunti e…

Horace gli disse, in tono glaciale: — Non mi pare che tu abbia perso molto tempo, quando siamo partiti. Per poco non mi hai travolto, tanto scappavi in fretta. La paura di metteva le ali ai piedi.

— Non direi. Soltanto un po' di preoccupazione, forse. Un meccanismo di difesa automatico, nient'altro.

— Non siamo riusciti a dare degna sepoltura a Gahan — disse Emma. — Vergogna. L'abbiamo abbandonato laggiù, avvolto nel suo sudario accanto alla fossa.

Spike era giunto ai piedi della collina e si dirigeva verso il monastero.

Il sole era coperto da un banco di nuvole filacciose. Lo scintillio della rete cristallina che coronava le colline e saliva il cielo era meno intenso.

Timothy fissò le luci e rifletté a voce alta. — Molecole di pensiero — disse. — Filosofi formato granello di polvere. Teorici miniaturizzati che generano sogni di grandezza. Non ci sono funzioni fisiche da considerare, solo le fini operazioni della mente umana…

— Oh, sta zitto! — gridò Horace.

Dalla cima della collina, sopra di loro, si udì un rumore, e un ciottolo cadde lungo il pendio. Tutt'e tre si voltarono verso il punto da cui giungeva il rumore. Un robot scendeva verso di loro. Il suo corpo luccicava debolmente alla luce solare; sulla spalla portava un'accetta.

Alzò una mano per salutarli. — Benvenuti, esseri umani — disse, con una voce in chiave di basso. — Da molto tempo non vedavamo uno di voi.

— “Non vedevamo”? — ripeté Horace. — Allora non sei solo.

Il robot giunse a una posizione leggermente più in basso della loro, poi si voltò a fissarli.

— Siamo numerosi — disse il robot. — Abbiamo passato parola su di voi, e altri stanno arrivando, lieti di potervi vedere.

— Allora qui non ci sono esseri umani?

— Alcuni ci sono, ma sono pochissimi — spiegò il robot. — Ciascuno a grande distanza dall'altro, nascosti. Un gruppetto qui, un gruppetto là, poche persone per gruppo. Noi invece siamo troppi. Pochi di noi hanno la fortuna di poter servire gli esseri umani.

— E come passate il tempo, allora? — chiese Horace.

— Abbattiamo gli alberi — disse il robot. — Abbattiamo tutti quelli che incontriamo. Ma gli alberi sono sempre troppi; non possiamo tagliarli tutti.

— Non capisco perché li tagliate — disse Timothy. — Quando li avete tagliati, cosa fate?

— Li ammucchiamo tutti insieme e quando la legna è abbastanza secca le diamo fuoco. Li distruggiamo.

Lungo la collina giunse intanto un altro robot che si schierò accanto al primo. Si tolse la scure dalla spalla, l'appoggiò a terra e appoggiò le mani sul manico.

Prese a parlare come se avesse terminato la frase lui, e non l'altro robot. — La fatica è grande — disse — perché non disponiamo delle meravigliose macchine che permettono di risparmiare il lavoro manuale e inventate da voi uomini. Un tempo c'erano robot con conoscenze tecniche, ma ora non ce ne sono più. Quando gli uomini si sono dedicati alla vita più elementare per coltivare la propria mente, non c'è più stato bisogno di loro. Agli uomini sono stati sufficienti robot molto semplici: giardinieri, cuochi e così via. E questi sono rimasti, quando gli uomini sono scomparsi.

Altri robot giungevano a sciami, e ognuno aveva un'accetta o un altro arnese di lavoro. Arrivavano da soli, o a gruppi di due o tre, e si raggruppavano dietro i primi due che avevano parlato con gli esseri umani.

— Ma ditemi — chiese Timothy — perché questa profonda dedizione al diboscamento? Il legno non lo usate, dopo averlo tagliato. Non vedo il motivo di una simile ostilità nei riguardi degli alberi.