— Quante sciocchezze! — ruggì Horace. — Perché Spike dovrebbe spingere il mostro verso di noi? Lui sa che razza di macchina sia.
— Spike è sempre stato pazzo — disse Emma. — C'era David, che di tanto in tanto prendeva le sue difese, e anche Henry aveva sempre una buona parola per lui. Ma per me è un grosso pallone gonfiato.
Uno dei robot saliva verso di loro.
Si fermò bruscamente ai piedi della rampa, davanti a Horace. Batté i tacchi metallici e sollevò in un alto la mano destra. Fissando Horace negli occhi, disse: — La situazione è in mano nostra, signore. L'abbiamo in pugno.
— Di che situazione parli? — domandò Horace.
— Come? — fece il robot. — Gli Infiniti. Gli sporchi Infiniti!
— Non siamo neppure sicuri che gli Infiniti ci siano ancora — disse Timothy. — L'unica cosa che abbiamo visto è il mostro assassino.
— C'è il monastero, signore — disse il robot, in tono asciutto, come se fosse seccato nel veder messa in dubbio la sua parola. — Dove c'è un monastero, ci sono degli Infiniti. Noi sorvegliamo questo posto da anni. Siamo rimasti sempre di guardia.
— E quanti Infiniti avete visto? — chiese Horace.
— Neppure uno, signore. Finora non ne abbiamo ancora avvistati.
— E da quanto tempo fate la guardia?
— C'è stata qualche breve interruzione, è comprensibile. Ma all'incirca da duecento anni.
— In due secoli non avete visto Infiniti?
— Sì, questo è vero, signore. Ma se fossimo sempre rimasti in osservazione…
— Oh, piantala — disse Emma. — Non dire altre sciocchezze.
Il robot s'irrigidì. — Mi chiamo Conrad — disse — e sono il comandante di questa esercitazione. Stiamo svolgendo la nostra funzione primaria, la protezione della razza umana e l'assistenza a essa, ed eseguiamo il nostro dovere, mi sia consentito dirlo, con precisione, efficienza e rapidità.
— Benissimo, Conrad — disse Horace. — Ti autorizzo a continuare.
Il mostro e Spike avevano cessato i loro giri di valzer nella polvere ed erano fermi l'uno davanti all'altro: nessuno dei due si muoveva. I robot, che ormai erano numerosissimi, tanto che parevano coprire l'intera collina, stavano ancora alacremente costruendo una robusta linea difensiva, mirante a circondare la valle dove sorgeva il monastero.
— Be', non credo che possiamo fare molto — disse Emma. — Tanto vale che prepari qualcosa da mangiare. Avete fame?
— Io sì — disse Horace. Aveva sempre fame.
Emma si affrettò a entrare, e Horace scese dalla rampa e andò a raggiungere Timothy. — Cosa ne pensi? — gli domandò.
— Mi dispiace per loro — disse Timothy. — Sono qui da secoli, senza nessun umano da servire.
— E all'improvviso arriviamo noi — disse Horace. — Scodellati freschi freschi nel loro grembo.
— Appunto. Nessun essere umano, e poi, all'improvviso tre umani che gli sembrano indifesi e minacciati. Minaccia in parte immaginaria, perché è abbastanza chiaro che gli Infiniti sono scomparsi. Ma il mostro assassino è abbastanza reale, ed estremamente pericoloso.
— Perciò hanno perso la testa.
— Come prevedibile. Erano senza lavoro da centinaia di anni.
— Ma non sono rimasti in ozio. Hanno tagliato tutti gli alberi che hanno trovato, hanno sradicato i ceppi e hanno dato fuoco alla legna così raccolta.
— Lavoro fabbricato su misura per loro stessi — disse Timothy. — Per farlo, per dedicare a esso ogni energia, si sono dovuti convincere che gli alberi seguiranno gli uomini come forza dominante del pianeta.
— Tu non credi a questa faccenda degli alberi, vero?
— A dire la verità, sono ancora indeciso. L'idea che gli alberi siano destinati ad assumere una posizione dominante ha un certo fascino per me. Probabilmente sarebbero migliori degli uomini, dei dinosauri, delle trilobiti: tre specie che non hanno dato buona prova di sé.
— È un'idea pazza — disse Horace. — Gli alberi stanno in un posto e non si muovono mai. Non vanno né avanti né indietro.
— Dimentichi — disse Timothy — che hanno miliardi di anni a disposizione. Possono attendere gli sviluppi dell'evoluzione, senza fretta. È stato questo il guaio della specie umana. Noi non abbiamo mai avuto la pazienza di aspettare, e così abbiamo messo in corto circuito l'evoluzione. Ma è sbagliato pensare che l'evoluzione sia troppo lenta. Guarda cos'ha fatto in meno di un miliardo di anni, dalla prima pulsazione di vita a un animale intelligente. Uno che a causa della sua intelligenza si è scavato da solo la fossa sotto i piedi.
— Eccoti di nuovo — disse Horace — a parlare male della tua razza.
Timothy alzò le spalle. Forse, si disse, Horace aveva ragione. Lui parlava male della sua razza. Ma la prima a denigrarsi era sempre stata la razza stessa. L'uomo era un gruppo turbolento di scimmie terricole. Nel corso della storia umana, c'erano stati la gloria e il successo, ma c'erano stati anche molti errori fatali. L'uomo aveva commesso tutti gli errori possibili.
Il sole scendeva dietro le alture. Timothy si avviò lentamente in direzione della valle, lasciando Horace. Quando raggiunse la prima fortificazione, i robot posarono la scure e si misero sull'attenti.
— Riposo — disse Timothy. — Non prestate attenzione a me. Continuate pure a lavorare. Il vostro comportamento è assai lodevole. State lavorando molto bene.
I robot ripresero il lavoro. Conrad, scorgendo Timothy, si affrettò a correre da lui.
— Signore — disse — ormai li abbiamo circondati da tutti i lati. Possiamo scorgere il bianco dei loro occhi. Che facciano soltanto un movimento, e noi caleremo su di loro.
— Ottimo lavoro, capitano — disse Timothy.
— Signore — disse Conrad — non sono capitano, sono colonnello.
— Scusate — disse Timothy. — Non volevo offendervi.
— Scuse accettate — disse il colonnello.
Dalla porta del viaggiatore Emma comunicò che la cena era pronta.
Timothy si affrettò a fare ritono. Aveva fame; non mangiava da diverso tempo.
Emma aveva messo in tavola un piatto di formaggio, un piatto di prosciutto, un grosso barattolo di marmellata e una pagnotta.
— Cercate di accontentarvi — disse ai due uomini — È tutta roba fredda. Il fornello non funziona, o, almeno, non riesco a farlo funzionare. Ho provato in tutti i modi.
— Andrà bene — disse Horace.
— Dovrete bere acqua — disse Emma. — C'è del tè e del caffè, ma senza il fornello…
— Non importa — la consolò Timothy. — Non pensarci più.
— Ho cercato della birra. Ma non ne ho trovata.
— L'acqua andrà bene — disse Horace.
Si sedettero e cominciarono a mangiare. Poteva andare peggio. Il formaggio era saporito e il prosciutto era stagionato. La marmellata era di more, ed era profumata, anche se piena di semi. Il pane era soffice, con una crosta croccante.
Emma assaggiò una fetta di formaggio e mangiò una fetta di pane e marmellata. Tra un morso e l'altro, domandò: — Cosa facciamo adesso?
— Per il momento — le disse Horace — restiamo qui. Questo viaggiatore è molto comodo. Servirà come rifugio e come base di operazione.
— Per quanto tempo? — chiese Emma. — Questo posto non mi piace.
— Resteremo qui finché non sapremo come stanno le cose. La situazione qui fuori mi sembra caotica, ma entro pochi giorni si può risolvere, e allora potremo prendere una decisione.
— Per quanto riguarda me — disse Timothy — intendo ritornare quanto prima.
— Ritornare dove? — chiese Emma.
— A Hopkins Acre. Non ho mai avuto intenzione di andarmene. E se avessi avuto il tempo di pensarci non sarei venuto via.