— Ma il mostro! — esclamò Eroma, inorridita.
— Quando ritornerò, il mostro se ne sarà andato.
— Ma perché vuoi ritornare? — domandò Emma. — Non capisco. Laggiù può essere pericoloso.
— Laggiù ci sono i miei libri — disse Timothy. — E anni e anni di appunti. Ho ancora del lavoro da fare.
— Il tuo lavoro è finito — gli disse Horace, seccamente.
— Non è finito affatto. C'è ancora molto da fare.
— Tu lavoravi per un futuro nel quale speravi. Pensavi di trovare un modo per fare tornare indietro gli uomini, per imparare dai vecchi errori per ricominciare su altre basi. Non capisci che il tuo lavoro è stato inutile? Questo è il tuo futuro, e l'umanità si è trasformata in scintille di luce. Gli Infiniti hanno terminato il loro compito e se ne sono andati.
— Ma qui ci sono ancora alcune persone — disse Timothy. — Si potrebbe ricominciare.
— Non sono sufficienti — obiettò Horace. — Alcuni qui, altri là, nascosti. Alcuni nel passato, altri nel presente. Il patrimonio genetico complessivo è troppo limitato per ripartire.
— È inutile parlarne con lui — disse Emma. — È il più ostinato della famiglia. Quando si mette in testa un'idea, non la lascia più. Per quanto tu ne discuta con lui, non riuscirai a convincerlo.
— Ne riparleremo domani — disse Horace. — Dopo un buon sonno.
Timothy si alzò. — Ci sono delle coperte? Vorrei passare la notte fuori. Il clima è ancora caldo, e dormirò sotto le stelle.
Emma gli portò le coperte. — Non allontanarti troppo — gli disse.
— Non ho bisogno di allontanarmi — disse lui.
Era caduta la notte. L'oscurità del monastero era stata inghiottita dall'oscurità che lo circondava. Su tutte le alture si scorgevano i falò dei robot, sovrastati dallo scintillio proveniente dai puntini nel cielo. Osservando attentamente, Timothy riuscì a individuare alcune stelle, ma soltanto le più luminose, poiché tutte quelle luci facevano scomparire le stelle più deboli.
Trovò un piccolo terrazzino sul fianco della collina: era sufficientemente piano e poteva servirgli per passare la notte. Posò in terra una delle coperte per non essere a contatto con il terreno e poi si coprì con l'altra.
Disteso sulla schiena, fissò i piccoli punti di luce nel cielo. Lassù c'era la fase finale della razza umana. Come segmenti di pensiero puro, gli esseri umani potevano sopravvivere all'estinzione del tempo e dello spazio alla fine dell'universo. L'intelligenza umana sarebbe rimasta intatta nel vuoto e sarebbe esistita per sempre. Esistita per cosa fare? Cercò di immaginare cosa poteva succedere dopo la fine del tempo e dello spazio. Ma non riuscì a immaginare niente.
Aveva detto a Horace che gli uomini avevano voluto accelerare l'evoluzione, che non avevano voluto attendere. Si era forse sbagliato? Le opere create dall'uomo, i sogni da lui coltivati, erano parti dell'evoluzione, alla stessa stregua del lento processo biologico che aveva portato dal primo battito di vita fino all'uomo? L'intervento degli Infiniti si era limitato a spingere l'uomo sulla strada evolutiva già a lui destinata? La prima scintilla di vita sorta nel mare primordiale era già irrevocabilmente diretta verso quelle luci che ardevano nel cielo? Che l'universo, con tutta la sua gloria e le sue meraviglie, non fosse altro che la serra in cui doveva spuntare l'intelligenza?
Se questo era vero, allora la razza umana era il popolo eletto. Eppure, il popolo eletto doveva essere più d'uno. Per non dover fare affidamento su una sola razza, doveva esserci stato il tentativo di far nascere molte forme intelligenti diverse, perché nessuna singola razza poteva essere sicura della sopravvivenza. A causa di errori, molte di queste forme di vita intelligente dovevano essersi estinte senza arrivare alla meta. Altre dovevano avere preso un indirizzo sbagliato e dovevano essere state eliminate.
Come certe creature della terra che disseminavano migliaia di uova per essere certe che almeno una parte della loro discendenza giungesse alla condizione adulta, così l'evoluzione doveva avere fatto nascere grandi quantità di razze intelligenti, per essere certa che alcune di esse, alla fine, giungessero allo sviluppo completo.
No, si disse Timothy, non poteva essere così. Erano sciocchezze, considerazioni insostenibili.
Ma perché l'umanità aveva fatto un simile passo in un momento in cui aveva saldamente in pugno le stelle e in cui era pronta a godersi i frutti del suo viaggio lungo la comoda strada della tecnologia? Perché si era fermata? Era subentrata una stanchezza razziale, un desiderio di allontanarsi dalle responsabilità che, a quel punto, l'uomo si doveva assumere? Giunto ad affacciarsi sullo spazio, e sulle possibilità senza limite che si stendevano davanti a lui, l'uomo si era tirato indietro per paura del fallimento? O per paura di qualcosa di diverso?
Timothy cercò di fermare i suoi pensieri e di svuotarsi la mente, perché riusciva soltanto a confondersi le idee e non aveva elementi per giungere a una soluzione. Chiuse gli occhi, cercò di eliminare dal suo corpo la tensione, e anche il tumulto dei suoi pensieri si fermò. Si addormentò, ma ebbe un sonno agitato. Si destò varie volte, chiedendosi dove si trovava, tendendo l'orecchio ai rumori della legione d'automi al lavoro, disturbato dalle luci nel cielo. Poi, ricordando dove si trovava, si riaddormentava.
Infine qualcuno lo svegliò scuotendolo per una spalla e gridando: — Timothy! Svegliati! Spike è scomparso!
Si mise a sedere, chiedendosi perché Emma fosse così preoccupata. Era perplesso. Spike spariva sempre. Quando erano a Hopkins Acre, Spike scompariva per buona parte del tempo. Non lo vedevano per giorni, ma non si erano mai preoccupati della cosa, poi, quando lo decideva lui, si rifaceva vivo, spensierato come sempre, e l'assenza non pareva avergli fatto male.
La Terra assumeva un colore argenteo sotto la prima luce della luna. Il fondo della valle era ancora avvolto nell'oscurità. Dai fuochi accesi tra le fortificazioni saliva un filo di fumo. Perché, si domandò Timothy, i robot amavano tanto accendere fuochi? Certo non li usavano per cucinare, perché non mangiavano. Probabilmente accendevano i fuochi per il loro eterno desiderio di scimmiottare il loro creatore, l'uomo.
Horace era fermo a un centinaio di metri di distanza e parlava con Conrad e altri robot. Horace gridava e faceva la voce dura, ma la cosa non aveva molta importanza. Horace gridava sempre, e faceva sempre la voce dura: la faceva apposta per dimostrare che era un uomo rude.
Emma riprese, con il suo consueto tono lamentoso: — Spike sta di nuovo combinando dei pasticci. Spike ne combina sempre. Non so come abbiamo fatto a sopportarlo per tutti questi anni.
Timothy si alzò in piedi. Sollevò le mani per fregarsi gli occhi, poi si diresse lentamente verso Horace e i robot.
Sentendo che si avvicinava Horace si voltò verso di lui. — È di nuovo Spike — gridò. — Si è rimesso a giocare. Si nasconde da qualche parte, e crede che andremo a cercarlo. Gioca a nascondino.
Conrad parlava più piano di Horace, ma le sue parole si udivano chiaramente. — L'unico posto dove può trovarsi è nel monastero. Sia lui che il mostro sono spariti. Sono dentro.
— Allora — gridò Horace — perché continuate a scocciarci? Perché non andate a controllare nel monastero?
— Non io — disse il comandante dei robot. — Il monastero non è una cosa che ci riguardi. Riguarda gli uomini. Se voi entrerete, allora entreremo anche noi, ma noi da soli non entriamo.
Timothy si unì al gruppo. — Siete certo — domandò, rivolto a Conrad — che non sia scivolato tra le vostre linee?
— Impossibile. Abbiamo montato la guardia per tutta la notte. Li abbiamo avuti sott'occhio costantemente fino a un certo istante; l'istante successivo erano scomparsi.
— E che cosa hanno fatto, mentre li guardavate?