— Giocavano, a quanto pareva. Si rincorrevano: a volte uno rincorreva l'altro, altre volte il contrario. Sembrava che lo facessero secondo dei turni.
— Spike va pazzo per il rimpiattino — disse Horace. — Non intendo perdere altro tempo per causa sua. Tra un po' si stancherà e farà ritorno qui, con la coda tra le gambe.
— Ci ha preso in giro per anni — disse Emma, che si era unita a loro. — Saremmo sciocchi, se andassimo ancora una volta a cercarlo.
Timothy disse: — Questa volta la situazione sembra completamente diversa. Penso che dovremmo andare. Questa volta può essere in pericolo.
— No! — latrò Horace. — Nemmeno un passo! Accidenti, non intendo muovere un dito per lui.
— Forse Timothy ha ragione — disse Emma, piano, come se non fosse certa di avere l'autorizzazione a parlare. — Dopotutto è uno della famiglia. È sempre stato con noi.
— Se non vuoi andare tu — Timothy disse a Horace — andrò io da solo. Voi due rimanete qui. Dammi il fucile.
Horace fece un passo indietro. — No, non te lo do. Non sei capace di usarlo. Ti spareresti in un piede.
— Il fucile è mio, Horace.
— Sì, il proprietario sei tu, ma questo non significa che tu sappia usarlo.
— Allora andrò disarmato.
— No, non ci andrai! — gridò ancora Horace. — Non ti permetterò di andare da solo. Ti ficcherai in chissà quale pasticcio e nessuno potrà aiutarti a uscirne fuori.
— Se decidi di andare con lui — disse Emma — allora vengo anch'io con voi. Non voglio restare da sola in questo deserto.
— Ti ringrazio — disse Timothy, rivolto a Horace. — Sarò lieto di averti con me.
— Organizzerò un drappello — disse Conrad — per darvi appoggio. Siamo qui per proteggervi.
— Non ce n'è bisogno — disse Horace, rigido.
— Mi permetto di insistere — disse Conrad. — Qui vi abbiamo protetto. Continueremo a proteggervi anche fuori.
Conrad si voltò verso gli altri robot e cominciò a impartire ordini. I robot si misero in fila, disponendosi rigorosamente sull'attenti e mettendosi a spalla l'attrezzo che portavano: qui una vanga, là un palanchino, un'ascia, un martello pesante, un piccone…
— Visto che vuoi farci fare una stupidaggine — disse Horace, rivolto a Timothy — facciamola.
Timothy si avviò lungo la discesa, con Horace da un lato ed Emma dietro. Horace portava a tracolla il suo fucile da caccia grossa. Dietro di loro veniva la chiassosa legione dei robot, che marciava alla cadenza scandita dei sottufficiali o dai loro equivalenti.
Timothy continuò a scendere, attento a non scivolare su quel terreno ripido. Accanto a lui cadeva di tanto in tanto qualche ciottolo scalzato dai piedi dei legionari, che sollevava piccole nubi di polvere.
Dov'era Henry? si domandò. Se ci fosse stato, si sarebbe potuto infiltrare nel monastero per spiare all'interno. Così, se fosse stato necessario entrare, gli altri non avrebbero dovuto entrare alla cieca.
Giunsero insieme ai piedi della collina e la compagnia di robot si divise in due file, che procedettero affiancate, con gli umani in mezzo, in direzione del monastero.
Conrad, che camminava in testa a tutti, gridò un ordine, e le due file di robot si fermarono. Poi ritornò al gruppetto degli umani. — Restate qui — disse loro. — Invierò degli esploratori.
Gridò un altro ordine, e quattro robot si lanciarono di corsa verso il monastero. — Ci dev'essere una porta — disse Conrad. — Forse più di una. Ci deve essere il modo di entrare.
— È una sciocchezza — disse Horace. — Non c'è nessun pericolo.
— Certo — disse Conrad. — Nessun pericolo visibile. Ma in ogni situazione nuova c'è sempre un elevato fattore di rischio. Potrebbe addirittura essere un deliberato tentativo di nascondere la minaccia: farci credere che non c'è pericolo. In ogni caso, la cautela non fa mai male.
Timothy si guardò attorno. Altri robot si dirigevano verso di loro. Uscivano dalle postazioni di difesa che avevano costruito sulle colline e correvano come pazzi. Altri sciamavano sulla pianura, affrettandosi per raggiungere la squadra di Conrad.
— Anche gli altri si uniscono a noi — disse a Horace. — L'intero gruppo.
Horace si voltò a guardare ed emise un brontolio per indicare cosa pensava dei robot.
Attesero che arrivassero le informazioni. Cadde un pesante silenzio. Non si udiva un soffio di vento, non si udivano frinire gli insetti. Alla fine, uno degli esploratori fece ritorno. Si presentò a Conrad e disse: — Signore, abbiamo trovato un accesso. Una porta aperta. Ci sono altre porte, ma sono bloccate; non abbiamo cercato di forzarle, per evitare qualsiasi rischio. Poi abbiamo trovato quella aperta.
— E siete entrati?
— No, anche ora per non correre rischi. Gli altri aspettano che giunga il resto della compagnia.
— Benissimo, grazie Toby — disse Conrad. — Avete agito saggiamente. — Poi, rivolto a Horace: — Siete pronti a proseguire?
— Eravamo pronti fin dal momento della partenza — disse Horace. — Non abbiamo deciso noi di starcene qui fermi a perdere tempo.
La colonna si rimise in movimento; i tre umani ripresero il cammino in mezzo alle due file dei robot, e l'esploratore che aveva portato il messaggio ritornò di corsa in avanscoperta. Giunti al monastero, procedettero a fianco di una delle pareti. Visto da vicino, l'edificio sembrava alquanto malridotto. Le pareti esterne, di lega metallica, cominciavano a coprirsi di ruggine. Non c'erano finestre, soltanto porte, disposte a intervalli regolari, e tutte chiuse.
Giunsero alla porta che era ancora aperta. Dava accesso all'ala principale dell'edificio.
— Attendiamo qui — disse Conrad. — Invierò una squadra a controllare, e poi potremo entrare anche noi.
Attesero a lungo. Infine, un robot si affacciò sulla soglia e fece segno di avvicinarsi.
— Entriamo, ma, per favore nessuna disdicevole fretta — disse Conrad.
Entrarono senza disdicevole fretta. Il gruppo di robot si allargò per perlustrare l'edificio.
L'interno era rischiarato da una luce verde, pallida e fredda. Timothy cercò la fonte luminosa, ma non riuscì a individuarla. La luce, si disse, era emessa dalle pareti e dal soffitto.
All'interno del monastero non c'era molto da vedere. La vasta sala in cui erano entrati sembrava coprire l'intera larghezza dell'edificio principale ed era vuota. Qua e là, alcune porte conducevano alle sale che erano state aggiunte in un secondo tempo alla struttura originale. I robot entravano in ognuna e facevano ritorno quasi subito, come a indicare che non avevano trovato niente.
Quando la sua vista si abituò alla debole luce verde, Timothy notò una parte del pavimento segnata da depressioni più o meno grandi, simili a cerchi asimmetrici o a fori scavati con il cucchiaio di una pala meccanica. Ma non si vedeva alcun tipo di arredamento: né scrivanie, né sedie, né cestini, né archivi, né macchine.
Certo! si disse Timothy. Lui aveva pensato in termini umani, mentre quello in cui erano entrati era un edificio alieno, costruito a misura degli alieni. Non poteva aspettarsi di trovare scrivanie e sedie. Ma avrebbe dovuto trovare altri oggetti: oggetti alieni, mentre invece non ne scorgeva nessuno.
Emma richiamò la sua attenzione. — Guarda in alto — gli disse. Lui guardò nel punto indicato e vide alcune strane forme che pendevano dal soffitto. Ce n'erano a centinaia, appese a corde e funi. Dondolavano lentamente, sospinte dalla debole corrente d'aria che circolava nell'edificio.
— Assomigliano agli Infiniti — disse Emma.
— Se lo sono — disse Conrad, fermo a pochi passi di distanza — non hanno vita. Non riesco a percepire vita. Se ce ne fosse, i miei sensi me lo direbbero. Se sono Infiniti, sono morti e li hanno appesi perché si mummificassero.