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Dal momento in cui avevano messo piede nell'edificio, non si erano allontanati dall'ingresso. Ora, dall'interno della costruzione, giunse un brusio di voci agitate.

— I ragazzi hanno trovato qualcosa — disse Conrad. — Andiamo a vedere.

I tre uomini e il robot corsero verso il punto da cui giungevano i rumori. Videro che gli altri robot avevano formato un cerchio intorno a qualcosa che destava i loro mormoni di stupore.

— Andiamo avanti — disse Conrad, brusco. — Che cosa succede? Fate largo.

I robot si spostarono per lasciarli passare. In mezzo alla sala c'erano Spike e il mostro, intenti a danzare una sorta di strano balletto aggraziato. Ma non si capiva se fosse una vera danza o un duello in cui ciascuno attendeva che l'avversario calasse la guardia. Facevano piccoli passi e accennavano movimenti, velocissimi, fintando e poi spostandosi immediatamente.

— Indietro, tutti quanti! — gridò Horace. — Me ne occupo io!

Si portò il fucile alla spalla, ma in quell'istante l'edificio oscillò violentemente. Gli umani e parte dei robot caddero a terra. Timothy scivolò sul pavimento inclinato, e proprio allora sentì chiudersi una porta.

Finì in uno dei fori del pavimento. Quando cercò di uscirne, si accorse che la sua superficie era talmente liscia da non permettergli la presa.

Bruscamente, l'edificio cessò di tremare e Timothy si guardò attorno. Il foro in cui era caduto era uno di quelli che parevano scavati da un cucchiaio. Era grosso come il suo corpo; pensò che se si fosse raggomitolato avrebbe potuto dormirvi comodamente. E forse era proprio quella la funzione dei fori: i letti degli Infiniti. Dato che erano più piccoli degli umani, potevano starci comodamente.

— Non riuscite a uscire? — domandò Conrad, curvandosi su di lui.

— Scivolo. Per favore, datemi una mano.

Conrad gli tese la mano e lo aiutò a rimettersi in piedi.

— Forse siamo nei guai — disse il robot. — Sospetto che ci sia stato uno spostamento.

— Spostamento?

— L'edificio si è mosso.

— Sono finito a terra.

— Credo che sia stato più di un sussulto — disse il robot. — Credo che ci siamo spostati nello spazio.

Qualcuno aveva aperto la porta da cui erano entrati, e i robot si precipitavano in quella direzione con l'intenzione di uscire dall'edificio. Horace era stato tra i primi a precipitarsi fuori, ma ora si fece strada in mezzo alla corrente di robot in uscita e ritornò verso Timothy. Brandendo il fucile, gridò: — L'edificio era una trappola. Ci ha attirati al suo interno per portarci in un altro luogo. — Si rivolse a Conrad: — Hai idea di dove ci troviamo?

Conrad scosse la testa. — Purtroppo, no — disse.

Timothy era confuso, non capiva cosa succedesse, cosa avesse detto Horace. — Altro luogo? — domandò. — Non dovrebbe esserci problema. Tutt'al più, qualche chilometro…

— Sciocco — disse Horace, irritato. — Non è quello che volevo dire. Non chilometri. Anni luce, probabilmente. Non siamo più sulla Terra. Da' un'occhiata fuori.

Così dicendo, lo afferrò per il braccio e lo spinse in direzione della porta.

— Va' a vedere!

Timothy, sospinto da Horace che premeva contro la sua schiena, raggiunse la porta, barcollando.

Era il tramonto. O l'alba. L'aria era fresca e frizzante, e il cielo aveva un aspetto strano. Il territorio intorno a loro pareva formare una serie di pieghe: una fila di collinette tonde terminava in un'altra fila di collinette più alte, e così via, fino all'orizzonte. Sull'orizzonte era sospesa un luna giallastra e rigonfia.

Chissà perché, si domandò Timothy, Horace l'aveva scambiato per un paesaggio alieno? A lui sembrava un posto come tanti altri, tranquillo e senza particolari caratteristiche. L'aria era respirabile e la gravità era quella solita della Terra.

Uno dei robot domandò: — Siete usciti tutti? Tutti fuori del monastero?

— Sono usciti tutti — rispose un altro robot.

— I comandi — gridava Horace. — Qualcuno ha visto il quadro dei comandi?

— Comandi?

— Sì, qualcosa che metta in azione il monastero. Per guidarlo e per farlo muovere.

— Nessuno li ha visti, ne sono certo — disse Conrad. — Non è un veicolo. È un edificio. Non ci sono comandi.

— Si è mosso da un posto all'altro — gridò Horace. — Si è spostato. Altrimenti non saremmo qui.

— Comincia a rompersi — esclamò un altro robot. — Si spezzano le giunture. Ascoltate.

Tesero l'orecchio, e si poté udire distintamente il cigolio della struttura: il rumore del metallo arrugginito che cede.

— Ne è rimasto in piedi appena a sufficienza per portarci qui — disse Conrad. — Ma adesso è finito. Ancora qualche anno, e non si sarebbe più mosso.

— Maledizione! — ruggiva Horace. — Maledizione!

— Sono d'accordo con voi — disse Conrad, parlando senza fretta. — Ci sono dei momenti in cui va tutto storto.

Timothy si allontanò dalla folla di robot che guardavano lo spettacolo del monastero che crollava. Meglio così, si disse. Se il monastero era una sorta di viaggiatore funzionante, chissà quali pazzeschi piani potevano venire in mente a Horace. Se non altro adesso erano provvisoriamente al sicuro, e in un ambiente che gli piaceva. L'aria era buona, potevano andare dove volevano, il clima era sopportabile, e probabilmente avrebbero trovato del cibo.

In quel momento, vide, era fermo su una collinetta coperta d'erba, ma era troppo buio per vedere che tipo di erba. Vide che il cielo si stava rischiarando, alla sua destra. Horace aveva detto che si trovavano su un altro pianeta, ma fino a quel momento non gli aveva dato alcuna spiegazione. Le colline sembravano quelle della Terra. Era troppo buio per distinguere i particolari.

Qualcuno si dirigeva verso di lui: Emma. Scese a raggiungerla. — Stai bene? — le disse.

— Sto bene — rispose lei — ma ho paura. Horace dice che non siamo più sulla Terra. Dice che ci sono due lune, e la Terra non ha due lune. Io non so come sia successo.

— Due lune? Ne vedo solo una. È sull'orizzonte, a ovest. O quello che mi sembra l'ovest…

— Ce n'è un'altra sulla nostra testa — disse Emma. — Una luna più piccola.

Piegando il collo, riuscì a vederla: proprio sulla sua testa. Come aveva detto Emma era una luna piccola, meno di metà di quella terrestre. Ecco come Horace aveva capito di trovarsi su un altro pianeta…

Il monastero non aveva smesso di cigolare. A est il cielo era sempre più chiaro. Ancora pochi minuti e sarebbe spuntato il sole.

— Hai visto Spike? — domandò Emma.

— Nemmeno un segno.

— Si sarà stancato di fare con quel mostro imbecille i suoi stupidi giochi.

— Non so se erano giochi — disse Timothy.

— Che cosa potevano essere, se non giochi? Spike è sempre occupato in qualche stupido gioco.

— Già, è vero — le disse lui.

La compagnia dei robot si era raccolta in una posizione al di sotto del monastero, ma poi si era ritirata. Adesso si era recata in una zona dove il terreno era piano. Echeggiò un ordine, e i robot si schierarono subito in formazione militare.

La luce dell'alba era adesso più chiara ed era possibile guardarsi attorno. Il profilo delle colline perse la rigidezza notturna e si ammorbidi. Guardandole in precedenza, quando era ancora buio, Timothy aveva supposto che fossero colline verdi, ma ora vide che avevano un colore del tutto diverso. Erano rossicce come il mantello di un leone o di un puma, e il cielo era violaceo. Come poteva essere viola? si domandò Timothy. Non solo una parte, ma tutto il cielo?

Horace salì faticosamente fino a loro. Si fermò un po' più in basso, con il fucile imbracciato.

— Ce l'hanno fatta — disse con rabbia. — Ci hanno rapito e ci hanno portato qui, dovunque siamo.