— Ma non siamo soli — disse Emma. — Ci sono con noi i robot.
— Bella banda di imbecilli — disse Horace. — Un mucchio di pasticcioni.
— Ci potranno essere d'aiuto — disse Timothy. — Conrad mi sembra competente… riesce a produrre dei risultati.
— Abbiamo perso tutto quello che avevamo — piagnucolò Emma. — Tutta l'attrezzatura che c'era nel viaggiatore. Le coperte! E il resto! I piatti e le casseruole!
Horace le mise un braccio attorno alle spalle. — No, i robot hanno portato le coperte e un po' di equipaggiamento — disse. — In un modo o nell'altro, ce la faremo.
Singhiozzando, Emma si strinse a lui, e lui la abbracciò impacciato, battendole la mano sulla spalla. Timothy guardò la scena, anche lui imbarazzato. Era la prima volta, in tutta la sua vita, che vedeva da parte di Horace un gesto affettuoso verso sua sorella.
A est il cielo era ormai chiaro, e scorgeva che la valle era percorsa da un fiume e che sulle sue sponde sorgevano degli alberi, che salivano fino ai piedi delle colline. Si trattava di alberi alquanto particolari: sembravano felci, giganti, o giunchi, di proporzioni colossali. Sulle colline, il vegetale di colore fulvo che era l'equivalente locale dell'erba si muoveva al soffio della brezza. Sembrava un ottimo pascolo, pensò Timothy, ma a portata d'occhio non c'erano animali erbivori, né in mandrie né isolati.
Dal monastero si staccò una lastra metallica che scivolò lungo il pendio. La struttura si era ormai afflosciata su se stessa ed era ridotta a un cumulo di rottami.
Nella valle, la formazione militare dei robot si era sciolta. Rimaneva soltanto una falange: il quadrato vuoto in centro, pensò Timothy, della tradizione militare, a partire dai macedoni di Alessandro fino all'ultima resistenza di Napoleone a Waterloo. Gli altri robot correvano in tutte le direzioni come formiche uscite dal formicaio. A quanto pareva, partivano come ricognitori per esplorare la zona.
Tre di essi si diressero verso gli umani. Si disposero intorno a loro, in modo da circondarli parzialmente. Uno parlò: — Signori, signora, Conrad ci ha incaricato di scortarvi fino al nostro campo, dove sarete al sicuro.
— Secondo voi — ruggì Horace — quel quadrato vuoto sarebbe un campo?
— Stiamo cercando combustibile per accendere un fuoco. Altri sono incaricati di portare acqua e il resto che occorre.
— Va bene — brontolò Horace. — Non so gli altri, ma io ho fame.
Si avviò verso il gruppo dei robot. Emma si mise al suo fianco e Timothy gli tenne dietro.
Il sole si era ormai alzato al di sopra dell'orizzonte. Guardandosi alle spalle, Timothy notò che assomigliava al sole della Terra: tutt'al più poteva essere un po' più grande e un po' più luminoso, ma la cosa era difficile da giudicare. Per molti aspetti, il pianeta era assai simile alla Terra. Abbassando gli occhi vide che il terreno color vinaccia era coperto di erba dai fili sottili.
Dal quadrato dei robot si levò un filo sottile di fumo.
— Hanno trovato qualcosa da bruciare — disse Horace. — Forse riusciremo a fare un pasto caldo.
Quando furono all'interno del quadrato protettivo, Conrad disse loro come si erano procurati il combustibile. — Legno degli alberi di felce. Non è la migliore legna da ardere che ci sia, ma brucia, e dà luce e calore. In centro è cava, ed è circondata da una polpa fibrosa, ma questa polpa è abbastanza densa. Inoltre, abbiamo trovato del carbone.
Sollevò la mano per mostrare il carbone: alcune piccole lastre nere e lucenti.
— L'abbiamo trovato in una formazione rocciosa, accanto all'argine del fiume. Non è carbone di grande qualità; è una sorta di lignite. Viaggiando, cercheremo altro carbone, e forse potremo trovarlo migliore. Comunque, tra legno di cattiva qualità e carbone di cattiva qualità, un fuoco siamo riusciti a farlo. Sulla Terra, tutto il carbone è già stato estratto e bruciato da tempi immemorabili.
— Viaggiare? — domandò Emma. — Dove dobbiamo andare?
— Dobbiamo allontanarci da qui — disse Conrad. — Qui non possiamo rimanere. Dobbiamo trovare un posto che offra cibo e riparo.
— Cibo?
— Sì, signora, cibo. Quel poco che avete non sarà sufficiente.
— Ma potrebbe essere avvelenato!
— Lo controlleremo — disse Horace.
— Non abbiamo modo di controllarlo.
— Certo — disse Horace. — Non abbiamo laboratorio. Non abbiamo reagenti, e anche e li avessimo, non conosciamo la chimica. Ma c'è sempre un modo. Dobbiamo fare da cavia noi stessi.
— Dovrete farlo voi — disse Conrad. — In questo, noi robot non possiamo aiutarvi.
— Prenderemo un minuscolo pezzo di cibo — disse Horace. — Lo assaggeremo. Se ha gusto cattivo, se brucia la lingua, se lega i denti, lo sputeremo. Se invece avrà gusto soddisfacente, ne inghiottiremo un piccolo pezzo, e poi staremo a vedere.
Uno dei robot lanciò un grido d'avvertimento, e indicò in cima alle colline. C'era un veicolo volante, di metallo lucido, che scendeva verso di loro. Volava a un metro d'altezza sul livello del suolo. Passò sulle loro teste e proseguì, poi svoltò, dopo aver oltrepassato il fiume, per procedere parallelamente alla collina. Poi cambiò di nuovo rotta e riattraversò il fiume poco al di sopra della loro altezza, seguì di nuovo la corrente del fiume, questa volta a tre metri dal suolo, e sorvolò il quadrato dei robot. Seguì ancora il corso del fiume per qualche centinaio di metri, poi, senza fretta, salì oltre la cima delle montagne e scomparve per la stessa strada da cui era venuto.
— Siamo sotto osservazione — disse Conrad. — E adesso sono venuti a controllarci.
— Cosa possiamo fare? — domandò Horace. — Come possiamo proteggerci e difenderci?
— Faremo la guardia — disse Conrad. — Andremo a cercarli.
Verso la fine del pomeriggio, gli esploratori che avevano seguito la corrente del fiume fecero ritorno per riferire che il fiume sfociava in un'ampia palude. Durante la notte ritornarono quelli che erano stati inviati a monte. La montagna, riferirono, lasciava il posto, a qualche chilometro di distanza, a un altipiano. Si scorgevano alte catene montuose in lontananza.
— È quanto volevamo sapere — commentò Conrad. — Ci dirigeremo verso il monte.
Partirono la mattina seguente. Quando i monti divennero più alti, l'avanzata si fece più faticosa. Sulle rocce accanto al fiume si scorgevano spesse vene di carbone. Anche la vegetazione cambiò. Felci e giunchi scomparvero, sostituiti da piante di altro genere, più vicine a quelle della Terra. Le colline parevano non terminare mai. Si alzavano sotto forma di catene, l'una parallela all'altra, sempre più alte, e tra l'una e l'altra c'erano strette valli. Conrad non cercò di accelerare il passo. Lui e Horace si rimbeccavano di tanto in tanto, ma la cosa non andava più in là di questo.
Trovarono del cibo adatto all'uomo: due tipi di tuberi, un frutto giallo che era assai abbondante, fagioli contenuti nei grossi baccelli di un rampicante. Ogni cibo venne assaggiato con molta cautela. Alcune possibilità vennero immediatamente scartate perché avevano odore cattivo o gusto cattivo. Horace ebbe qualche bruciore di stomaco dopo avere assaggiato alcune bacche, ma fu l'unico incidente. I robot catturarono piccoli animali; tutti, all'infuori di uno, risultarono commestibili. I pesci che nuotavano nel fiume avevano un odore così nauseabondo che nessuno ebbe il coraggio di assaggiarli.
I robot costruirono armi da caccia, ma gli archi erano poco maneggevoli e le frecce volavano storto. Provarono con le punte di selce, ma a causa della loro imperizia e del materiale inadatto le punte risultarono troppo pesanti. I robot riuscirono comunque a portare un po' di selvaggina.
Il tempo continuò a rimanere bello. Nel cielo violaceo non si formò alcuna nube. Le giornate erano molto calde; le notti leggermente più fresche.
Infine le montagne terminarono: giunsero su un altipiano largo e asciutto, punteggiato qua e là di montagnole, che terminava all'orizzonte dove si alzavano montagne bianche e azzurre. Portando con sé dei secchi fatti con legno locale, per trasportare l'acqua, il gruppo s'incamminò lungo la pianura. L'impazienza e l'irritazione erano le emozioni dominanti.