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— Molto di ciò che vediamo nell'universo — disse Hugo — comincia nel campo dell'immaginario. Spesso occorre immaginare una cosa prima di poterla affrontare.

— Continuiamo a girare in cerchio — disse Timothy. — Non approdiamo a niente. Se questo posto è come lo descrivete voi, allora non sono adatto a viverci. Perciò, spiegatemi perché mi trovo qui.

— Siete qui per fornirci delle prove.

— Che genere di prove? Che cosa ci si aspetta da me?

— Non posso dirvi altro — spiegò Hugo. — Mi è stato ordinato di non dirvelo. Domani vi condurrò dove siete atteso. Ma adesso è tardi e devo ritirarmi.

Per ore, a letto, Timothy non riuscì ad addormentarsi. Continuò a pensare alle parole di Hugo.

Era ragionevole, naturalmente, che esistesse un centro galattico dove le razze intelligenti della galassia potevano unire le loro conoscenze e lavorare insieme per il bene reciproco. Ma quali potevano essere i problemi, quali le domande? Pensandoci sopra, riuscì a immaginarne molte, ma esaminandole a una a una, alcune non gli parvero abbastanza profonde, altre gli parvero ridicole. Le sue prospettive umane erano troppo ristrette; la cultura umana era sempre vissuta con il paraocchi. Anche se lo stesso doveva valere per ogni cultura rappresentata laggiù, almeno nel suo periodo più primitivo.

Alla fine si addormentò. Poi sentì che qualcuno lo scuoteva per svegliarlo. — Spiacente, signore — diceva Hugo, chino su di lui. — Dormivate così bene che sembra un peccato svegliarvi. Ma la colazione è pronta e dobbiamo partire. Ho un veicolo di superficie ed è un tragitto molto simpatico.

Benché trovasse sgradevole l'idea di alzarsi, Timothy si mise a sedere sulla sponda del letto e prese gli abiti che aveva lasciato sulla spalliera della sedia.

— Scendo subito — disse.

Per la colazione c'erano uova e prosciutto fatti come piacevano a lui. Il caffè era tollerabile.

— Qui cresce il caffè? — domandò.

— No — disse Hugo. — Abbiamo dovuto cercarlo in uno dei pianeti colonizzati da voi umani, millenni fa.

— Quelle colonie esistono ancora? — domandò Timothy.

— Sono ricche, oggi. Hanno superato il periodo iniziale di difficoltà.

— E questo cibo l'avete ottenuto dalle colonie?

— Ne abbiamo ottenuto una quantità che sarà sufficiente per un certo periodo — disse Hugo. — Inoltre abbiamo mucche, maiali, polli, e semi per coltivare mais, frumento e molti altri vegetali. Abbiamo lo spazio necessario e anche le informazioni occorrenti. Abbiamo avuto l'ordine di non risparmiare gli sforzi. E non li abbiamo risparmiati.

— E tutto questo per nutrire un solo uomo? Oppure ci sono altri umani quaggiù?

— Voi siete l'unico — disse Hugo.

La vettura lì aspettava davanti alla casa. Salirono e Hugo si mise al volante. Lungo la strada si scorgevano altre abitazioni, quasi tutte nascoste dietro una folta vegetazione. Sul prato di una che pareva costruita in prevalenza sottoterra, una decina di creature pelose saltavano e si rotolavano allegramente, giocando come bambini.

— Qui incontrerete ogni tipo di persone — gli disse Hugo. — Vi sorprenderete della velocità con cui vi abituerete ai vostri vicini.

— Parlate come se dovessi diventare un residente permanente. Avevo l'impressione che intendeste sbattermi fuori, una volta fatto ciò che devo.

— Niente affatto. Una volta terminato il colloquio, vi forniremo materiale informativo perché possiate riprendere il vostro lavoro. Il vostro lavoro consisterà probabilmente nel pensare nuovi problemi e nel risolverli, o nel suggerire nuove impostazioni per affrontarli.

Timothy mormorò qualcosa tra sé.

— La prospettiva non vi piace? — domandò Hugo con ansia.

— Mi avete rapito… voi e quell'indescrivibile Spike che deve averci spiati per anni.

— Non siete stato scelto a caso. Noi cerchiamo informazioni e persone di talento su vari pianeti. Da quasi tutti i pianeti si possono ricavare informazioni, ma il talento è raro.

— E pensate che io abbia del talento?

— Potreste averlo.

— Ma i talenti da voi trovati potrebbero risultare diversi dalle previsioni. Che cosa fate, in questo caso?

— Li teniamo. Siamo in debito verso di loro. E paghiamo sempre i nostri debiti.

Passarono davanti a un castello in miniatura, di colore rosa, appollaiato in cima a una collina: tutto torri e feritoie, con pennoni svolazzanti alla brava.

— Il castello delle fate — disse Hugo. — Credo sia la definizione giusta. In quel castello abita gente molto avanzata che vede l'universo come una struttura matematica complessa e che sta lavorando su questa idea. Si spera che col tempo riesca a giungere alla chiave di tutto.

La strada portava a una carrozzabile lastricata su cui correvano altri veicoli, ma non molti. Niente di paragonabile al traffico cittadino. Lontano si scorgeva un gruppo di edifici molto alti e severi, senza niente di fantasioso, pratici.

— Andiamo laggiù? — domandò Timothy, indicandoli.

Hugo annuì. — Nella vostra lingua lo chiamereste un centro amministrativo. È laggiù che si svolge gran parte del lavoro, anche se molti di noi lavorano nelle proprie case o in ritiri tra i monti. Ma è laggiù che converge tutto. Ci sono le officine, gli osservatori, le biblioteche, i laboratori e le stanze di riunione. E inoltre certi servizi che non saprei definire nella vostra lingua.

Giunsero al centro amministrativo e si avviarono lungo uno dei grandi corsi alberati. Lungo le strade si vedevano molte automobili parcheggiate. Tra un edificio e l'altro si stendevano grandi parchi. Sui marciapiedi camminavano vari mostri, alcuni dei quali indossavano vesti assurde e coloratissime, mentre altri ignoravano qualsiasi tipo di abito. Taluni saltellavano, strisciavano, scivolavano, camminavano. Altri portavano borse e valigette; uno si trascinava un carrettino pieno di aggeggi incomprensibili.

— Questo posto — disse Timothy — mi sembra uguale alla Terra… le strade, i parchi, gli edifici…

— Il problema di suddividere tra loro le aree di lavoro è semplice — disse Hugo. — Si prendono tanti metri cubi di spazio e si chiudono entro una struttura che li contenga. Qui gli edifici, sono stati costruiti in base a un'unica considerazione: di essere quanto più possibile semplici e funzionali. Se avessimo rinunciato alla semplicità, avremmo potuto incontrare lo sfavore di alcune delle culture qui rappresentate. Non c'è modo di soddisfare tutti, e perciò abbiamo fatto del nostro meglio per non venire incontro a nessuno in particolare, usando un'architettura monotona con linee rette e profili semplici.

Accostò al marciapiede e si fermò davanti all'entrata di uno degli edifici. — Ecco la vostra destinazione. Vi accompagno al luogo dell'appuntamento, ma non posso proseguire con voi. Dovete entrare da solo. Troverete una piccola stanza con una sola seggiola. Sedete e aspettate. Non preoccupatevi. Dopo qualche momento, vi sembrerà la cosa più semplice del mondo.

La stanza era a poca distanza dall'entrata. L'edificio sembrava quasi vuoto. Si fermarono davanti a una porta, e Hugo ritornò indietro. Timothy spinse la porta, che si aprì senza difficoltà.

Una piccola stanza, aveva detto Hugo; ed era davvero una piccola stanza, ma molto accogliente. Sul pavimento c'era un tappeto, e tutte le pareti erano decorate. Di fronte alla sedia c'era una parete interamente coperta di decorazioni. Timothy attraversò la stanza, andò a sedersi, e si mise a studiarle. Erano disegni astratti, di colore tenue, formati da minuscoli motivi decorativi intrecciati tra loro. Non si capiva dove iniziasse un motivo e terminasse l'altro.

Udì una voce che si rivolgeva a lui, e che pareva provenire dalla parete. — Benvenuto al Centro. Vi chiamate Timothy. Avete anche un cognome?