— Sì, in parte. I miei contemporanei stavano molto sulla difensiva…
— E che argomenti usavano, gli Infiniti, per convincere i membri della vostra razza ad accettare la trasformazione?
— Offrivano una sorta di immortalità. Una creatura incorporea, dicevano, non può morire. Può sopravvivere alla fine dell'universo. È immune da tutti i mali fisici. Libera dal corpo, la mente può salire sempre più in alto. E questa, dicevano gli Infiniti, era la meta suprema di ogni creatura cosciente. L'intelligenza era l'unica caratteristica che contava. Perché rimanere vincolati al mondo fisico, dicevano, a tutti i suoi pericoli e a tutte le sue delusioni? Liberatevi della parte materiale, dicevano, e sarete veramente liberi.
— Per molti — disse la voce dal muro — doveva essere un discorso assai logico e convincente.
— Per la stragrande maggioranza della razza umana — ammise Timothy.
— Ma non per voi e per i vostri familiari. A voi non sembrava giusto?
— È difficile dire con esattezza quale fosse il nostro pensiero. Mi limito a dire che nel complesso provavamo una forte repulsione per l'attività degli Infiniti.
— Li temavate e li odiavate? Li consideravate nemici?
— Sì.
— E cosa ne pensate, adesso che tutto sembra finito, e che gli Infiniti hanno terminato il compito che si erano prefissi?
— No — disse Timothy — non è ancora finito. La razza umana è ancora viva. Ci sono colonie umane su altri pianeti, e avete detto che prosperano. Inoltre ci sono ancora dei dissidenti nascosti nel passato.
— Che sentimenti provate nei riguardi degli esseri umani che hanno seguito la via indicata dagli Infiniti?
Timothy esitò a lungo, e infine disse: — Forse se lo sono meritato. In fondo, è quanto chiedevano. Hanno girato la schiena ai successi conseguiti dalla razza.
La voce dal muro non fece commenti.
Timothy attese, poi domandò: — È di questo che volevate parlarmi? Posso chiedere qual è il vostro interesse?
La voce disse: — Questa è un'inchiesta sulle finalità e le motivazioni degli Infiniti. Noi abbiamo interrogato anche molti altri.
— Altre razze che sono state vittime degli Infiniti?
— Alcune di esse sì.
— E gli Infiniti sono ancora dediti al loro tentativo di fare proseliti?
— Da qualche tempo no. Li abbiamo chiusi nel loro pianeta. Sono in quarantena, mentre procediamo nella nostra inchiesta. Dovete sapere che noi del Centro, benché rispettiamo la volontà di ogni popolo, dobbiamo cautelarci, se questa volontà è eccessivamente aggressiva.
— Le creature che noi chiamiamo robot assassini — domandò Timothy. — Che cosa sono?
— Mercenari. Poliziotti — disse la voce — che gli Infiniti, nella loro arroganza, hanno pagato perché eseguissero la loro volontà. Gli assassini non sono stati messi in isolamento: vengono progressivamente distrutti. Alcuni sono ancora in libertà, ma noi diamo loro la caccia. Il vostro amico Spike ha distrutto uno degli ultimi.
— L'ho visto — disse Timothy.
— È stata l'arroganza degli Infiniti a portare su di loro la nostra attenzione. In questa galassia non c'è posto per gli arroganti. Si può tollerare quasi tutto, ma non l'arroganza.
Cadde nuovamente il silenzio.
— Nient'altro? — chiese Timothy.
— Per ora — disse la voce. — Più tardi potremo parlare ancora. Adesso siete uno di noi. Da tempo aspettavamo di avere con noi un umano. Ritornate alla vostra abitazione: laggiù troverete del materiale informativo che vi spiegherà dettagliatamente chi siamo e come agiamo. Di tanto in tanto vi chiameremo per discutere con voi qualche argomento.
Dopo qualche istante, Timothy si alzò e fece lentamente ritorno alla porta. In strada c'era Hugo, che, appoggiato all'automobile, aspettava il suo ritorno.
Timothy Evans, umano, ultimo entrato fra i membri del Centro Galattico, si affrettò a raggiungere l'auto che lo attendeva.
11. Henry
Il percorso era stato lungo e la pista difficile da seguire, ma portava laggiù, e laggiù erano scomparsi tutti. Il viaggiatore era fermo sul ciglio di una valle che aveva la forma di una scodella, ed era vuoto. E al di sopra della valle chiusa tra le montagne era sospesa una coltre di scintille.
Istintivamente, Henry sapeva che ciascuna di quelle scintille era un umano smaterializzato.
La situazione era incomprensibile. Le persone da lui seguite erano state laggiù fino a poco tempo prima, ma erano scomparse senza lasciare traccia. Anche Enid non aveva lasciato traccia.
Dal viaggiatore mancavano le provviste portate da Horace. Dunque, pensò Henry, non erano partiti in fretta e furia. Prima di partire si erano preparati; avevano avuto il tempo di radunare le provviste e di portarle nel loro luogo di destinazione.
L'intera vallata era coperta di curiose costruzioni di legno, era piena di pali infissi nel terreno. Probabilmente era una linea difensiva costruita in fretta e furia, ma per difendersi da cosa?
Trovò e riconobbe la scia di Emma, di Horace e di Timothy, oltre a quella di Spike. Inoltre trovò abbondanti tracce di molti altri esseri. Nel terreno c'erano le impronte di piedi simili a quelli umani, ma, esaminandole con attenzione, vide che non erano umane.
Scese in fondo alla valle e trovò una depressione rettangolare, dove, fino a poco tempo prima, si era innalzato un edificio. E nella zona aleggiava un odore che lui ricordava dal lontano passato: l'odore degli Infiniti.
La famiglia era scomparsa. Enid era sparita, David era morto, e adesso anche gli altri tre mancavano. Lui era rimasto solo in quel luogo del lontano futuro.
Se almeno avesse potuto tornare indietro lungo la linea del tempo, fino al momento in cui i suoi tre familiari erano arrivati laggiù… se fosse stato possibile farlo, tutto sarebbe stato più semplice. Ma era impossibile. Si poteva viaggiare liberamente nel tempo, ma non nelle aree dove si rischiava di interferire con qualche sequenza di avvenimenti.
Lui poteva capire ragionevolmente la necessità di queste limitazioni; ma quando cercava di comprendere la loro natura, non trovava alcun principio fisico che le giustificasse. Era possibile, si domandò, che l'universo fosse basato su principi morali?
Continuò a pensare a questo muovendosi nella valle senza una meta precisa. Era privo di amici e di familiari, e si trovava in un tempo che non conosceva e che non gli piaceva.
Poteva ritornare a Hopkins Acre, ma ormai quella casa era un posto solitario e abitato da visioni del passato, e là si sarebbe sentito perduto. Poteva cercare Corcoran, ma Corcoran non era un suo familiare. Era un estraneo capitato per caso a Hopkins Acre.
Il mio posto, si disse Henry, è lassù, con tutti quegli altri scintillanti punti di luce; bene o male che sia, dovrei essere uno di loro. Molto tempo prima, per orgoglio e per cocciutaggine, non era riuscito a diventare uno di loro; non aveva potuto raggiungerli. E forse stava meglio di loro. L'aveva già pensato una volta, e forse aveva ragione.
Riprese dunque la sua ricerca in tutte le direzioni, come un cane da caccia, nella debole speranza di ritrovare la scia. Ma era un compito disperato. La traccia terminava in quella valle chiusa tra le montagne.
12. Corcoran
Corcoran seguì il sentiero che partiva dal prato dove era atterrato il viaggiatore e che saliva alla cima della collina, e giunse alle mura della città dimenticata. Correva il rischio di non trovare niente, si disse. Quando era uscito dal viaggiatore aveva studiato a lungo il profilo delle rovine sullo sfondo del cielo, e non aveva visto alcun albero. Eppure era certo di non esserselo immaginato.
Probabilmente, per vederlo doveva mettersi in una posizione ben precisa. Quando aveva cercato il viaggiatore posto all'esterno dell'Hotel Everest, per vederlo si era dovuto mettere sotto un determinato angolo. Forse questo valeva anche per l'albero. Doveva raggiungere il punto da cui l'aveva visto la volta precedente.