— La cosa gli garba poco — ridacchiò Horace.
— Alcuni sono offesi da questo comportamento.
— Chi sono i mostri che si chiudono dietro queste mura? Che cos'è questo posto?
— Questo — disse Timothy — è il Centro Galattico.
— E tu, cosa fai qui?
— Sono uno di loro: l'unico membro umano del Centro.
— Vuoi dire che pretendi di rappresentare la razza umana?
— Io non rappresento nessuno. Mi limito a presentare il punto di vista della razza umana, e loro non mi chiedono altro. Va bene così.
— Bene. Visto che sei uno di loro, perché non ci inviti a entrare? È l'unica cosa che chiediamo: che si presti attenzione a noi. E voi ci avete ignorato. Noi bussavamo alla porta. Niente di più.
— Bussavi? Martellavi, Horace. Tu non bussi, Horace. Tu schianti.
— Intendi dire che non farai niente per noi?
— Potrei assumermi la responsabilità di portare con me Emma. Dentro la città starebbe più comoda che fuori.
Emma scosse la testa. — Io resto con Horace. Grazie Timothy, ma senza Horace non vengo.
— Allora, penso di non poter fare niente.
— Non hai altro da dire? — chiese Horace. — Vieni qui a minacciarci e basta?
— Io non minaccio nessuno — disse Timothy. — Io vi chiedo solo di smetterla.
— E se non la smetto?
— La prossima volta, non sarò io a venire. Sarà un altro. Magari meno educato di me.
— Come educazione, sei tutto da discutere.
— Non saprei — disse Timothy. — A volte si fa molta fatica a mantenere l'educazione con te.
— Smettila! — esclamò Emma. — Smettetela! Vi state comportando come tutte le altre volte. Vi saltate sempre alla gola.
Si voltò verso Horace. — Tu! Tu dici che ti limitavi a bussare alla porta. Non è vero. Tu scagli pietre contro le finestre. Ecco cosa fai.
— Un giorno o l'altro — disse Horace — riuscirò a romperla una finestra. E quel giorno la città dovrà ascoltarmi.
— Allora, ti dico cosa sono disposto a fare — annunciò Timothy. — Sono disposto a ritornare davanti al Consiglio. Presenterò la vostra situazione. Forse potrò far entrare te ed Emma, ma non i robot.
— Per noi va bene — disse Conrad. — Non siamo noi coloro che vogliono entrare. Noi lo facciamo per Horace. Per noi va benissimo: possiamo rimanere fuori. Abbiamo un intero pianeta a nostra disposizione. Possiamo edificare una società di robot. Possiamo dare un'impostazione diversa alla nostra vita. Qui c'è un mucchio di buona terra coltivabile. Possiamo coltivare cibo per la città. Oppure fare un mucchio di altre cose.
— Cosa ne dici? — chiese Timothy, rivolto a Horace.
— Be' — disse Horace, con riluttanza — se è questo che vogliono…
— Quando eravamo sulla Terra — disse Conrad — combattevamo la nostra guerra contro gli alberi. Se fossimo ancora laggiù, continueremmo a combatterla. Ma qui non ha senso continuare a lottare. Lasciati a noi stessi, ce la caveremo benissimo. Dinanzi a noi si aprono infinite possibilità che sfrutteremo.
Timothy fissò Horace, che non disse niente. Aveva l'aspetto di chi ha appena subito una grossa batosta.
— Vedrò di fare il possibile — disse Timothy. — Ma se ti permetteranno di entrare, dovrai comportarti bene, dovrai tenere la bocca chiusa. Non dovrai dare fastidio. Io ho una casa molto simile a quella di Hopkins Acre. Laggiù sarai il benvenuto. È un ottimo posto dove abitare. Se darai fastidio, non ti sarà permesso di uscire dalla casa. Ti va bene?
Emma rispose per lui: — Gli va bene, gli va bene. Ci penserò io a farglielo andare. Sono stufa di dormire all'addiaccio. Perciò Timothy, va' dove devi andare. Fa' tutto quello che puoi.
14. Il Popolo dell'Arcobaleno
La rete era scesa in un luogo dove grandi blocchi di cristallo bianchi come il ghiaccio s'innalzavano sullo sfondo del cielo, e dove c'era una pianura costituita da altri blocchi di cristallo stesi come pietre da pavimentazione. Il cielo aveva un colore blu, così scuro da parere nero.
L'orizzonte sembrava troppo vicino ed era contrassegnato da un alone violaceo. Lo spazio interplanetario pareva premere sulla superficie del pianeta, lasciando solo un sottile strato di atmosfera tra la superficie e il vuoto. Eppure respirare non era faticoso. L'aria sembrava fredda, ma in realtà si stava bene in maniche di camicia.
Nessuno aveva ancora detto una sola parola. Boone si guardò attorno. Non c'era altro da vedere che quei blocchi di cristallo che circondano la piccola zona piana dove erano atterrati. Non si scorgeva il sole, anche se c'erano luce e calore.
Comparve all'orizzonte un guizzo di colore, che poi scomparve.
— Cos'era? — domandò Enid. Nessuno le rispose.
— Lo vedo di nuovo! — esclamò.
Questa volta il guizzo di colore non scomparve, e salì al di sopra dell'orizzonte; poi si curvò nuovamente verso terra. Brillò e si stabilizzò, formando un arco color pastello che sovrastava la superficie.
— Un arcobaleno! — esclamò Corcoran. — Questo è il posto.
— Non è un semplice arcobaleno — disse Muso di Cavallo. — Forse è il Popolo dell'Arcobaleno.
Davanti a loro si formarono altri arcobaleni. Nascevano dal vuoto, salivano al cielo, si piegavano e formavano un arco. Il loro numero aumentò, s'incrociarono tra loro, finché anche il piano s'illuminò della loro luce e si colorò tutto.
Anche se parevano sufficientemente stabili, gli arcobaleni davano un senso di precarietà. Parevano delicati ed eterei, come se non fossero destinati a permanere a lungo.
Il robot aveva scaricato dalla rete la sua attrezzatura da cucina ed era indaffarato con il forno: non prestava attenzione agli arcobaleni. Enid e Corcoran erano accanto a lui e osservavano il cielo. Il Cappello si era sdraiato in terra. Muso di Cavallo stava davanti a lui.
— Manca uno di noi — disse Boone, sorpreso. — Non c'è Martin. Cosa gli è successo?
— È cascato dalla rete — disse Muso di Cavallo. — La rete non l'ha voluto tenere…
— E voi non ci avete detto niente? Non avete accennato alla cosa.
— Si vede che non era destinato a venire con noi. La rete le sa, queste cose.
— Gli Infiniti ci sono ancora — disse Corcoran.
I tre Infiniti, riuniti insieme, si tenevano in disparte.
— Mi pare che sia successa una cosa orribile — disse Enid. — Dite che Martin è caduto. Siete sicuro di non avergli dato una spinta?
— Io ero lontano da lui. Non potevo dargli nessuna spinta.
— Io per primo non piangerò la sua mancanza — disse Corcoran.
— Avete idea di dove possa trovarsi? — chiese Boone.
Muso di Cavallo alzò le spalle.
Il Cappello disse a tutti: “Io non parlo per me” disse. “Sono il portavoce del Popolo dell'Arcobaleno. Attraverso di me, parla a voi”.
— Ma chi è il Popolo dell'Arcobaleno? — domandò Boone.
“È composto di coloro che vi sembrano arcobaleni” disse il Cappello. “Vi danno il benvenuto. Più tardi parleranno con voi”.
Enid domandò: — Ho capito bene? Gli arcobaleni sono persone? Sono le persone di cui ci avete parlato?
— A me — disse Corcoran — non sembrano persone.
Lupo si avvicinò alla gamba di Boone, e Boone gli parlò piano. — Tutto a posto — gli disse. — Sta vicino a me. Siamo sempre insieme.
— E il Popolo dell'Arcobaleno non ha altro da dirci? — chiese Enid. — Che siamo i benvenuti e che più tardi ci parlerà?
“È tutto” la informò il Cappello. “Che altro volete”?
Il robot disse: — Senza preavviso, posso fare solo degli hamburger. Vanno bene?
— Se si mangiano — gli disse Muso di Cavallo — per me vanno bene.