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Al di sopra dell'orizzonte, il mucchio di arcobaleni perse fulgore; dapprima i colori sparirono, e infine non ci fu più traccia di luminosità. La sparizione degli arcobaleni, pensò Boone, pareva avere portato via anche una parte del calore. Rabbrividì a questo pensiero, anche se sapeva che non c'era motivo di rabbrividire. In quel luogo c'era la stessa temperatura di prima.

È stato il Cappello, si disse Boone, a portarci qui. Il Cappello non aveva dato loro il tempo di discutere le altre possibilità. Forse era un agente dell'Arcobaleno: conosceva il Popolo, sapeva dove lo si poteva trovare, era il suo portavoce.

— Propongo di salire sulla rete e di andarcene — disse. — Cosa diavolo stiamo a fare qui?

— Sei anche tu della mia idea, vedo — disse Corcoran.

“Siamo venuti qui” disse il Cappello “per giudicare gli Infiniti. All'unica corte che può dare loro una giusta udienza, l'unica che abbia le conoscenze necessarie”.

— Allora, cerchiamo di fare in fretta — disse Corcoran. — Giudichiamoli e partiamo. Oppure, ancora meglio, lasciamo qui gli Infiniti e partiamo. A me non interessa conoscere il verdetto.

— A me, invece, interessa — disse Enid. — Sono quelli che hanno distrutto la razza umana. Voglio sapere cosa succederà loro.

“Il processo non è tutto” disse il Cappello. “Ci sarà qualcosa d'altro che riguarderà tutti voi”.

— Non so proprio cosa possa essere — disse Corcoran.

“Gli Arcobaleni sono una razza antica” disse il Cappello. “Una delle prime, se non la prima razza dell'universo. Hanno avuto il tempo di evolversi al di là di ogni attesa. La loro conoscenza e la loro saggezza superano ogni vostra concezione. Adesso che siete qui, sarebbe bene che li ascoltaste. Non vi richiederà altro che un po' di tempo”.

— La più antica razza dell'universo… — disse Boone, e non continuò. Se era la razza più antica, aveva potuto evolversi fino alla condizione più alta.

Si sentì girare la testa, a quel pensiero. Gli pareva fantastico… eppure non più fantastico di ciò che gli uomini avevano fatto in qualche centinaio di migliaia di anni, passando dalla condizione di animaletti astuti, ma facile preda di tutti gli altri, a quella di padroni del pianeta. Questo grazie alla loro mente acuta e alle loro mani abili, che avevano permesso loro di costruire strumenti capaci di farli sopravvivere in un ambiente ostile.

Ma gli Infiniti, pensò… santo cielo, se ciò che dicevano gli Infiniti era vero, la smaterializzazione che offrivano agli uomini non aveva niente da temere da mutamenti delle condizioni fisiche dell'universo, mentre il Popolo dell'Arcobaleno, se era vincolato alle forme di energia che assumeva su quel pianeta, poteva morire con l'aumento dell'entropia. Dato che l'universo era destinato a raggiungere l'annullamento di tutte le differenze, e che spazio, tempo ed energia erano destinati a rimanere immobili, anche la forza che permetteva al Popolo dell'Arcobaleno di esistere si doveva annullare e quel giorno il Popolo sarebbe morto insieme con l'universo.

E il Cappello aveva affermato che il Popolo dell'Arcobaleno era il solo che poteva giudicare gli Infiniti!

Eppure, si domandò Boone, era possibile che gli Infiniti, pur essendo in grado di fornire agli altri un perfetto sistema di sopravvivenza, per qualche ragione fossero incapaci di usarlo su se stessi? Forse gli Infiniti, giunti al momento di porre il piede sulla Strada dell'Eternità, avevano avuto paura?

E anche adesso avevano paura, tutt'e tre. Si erano messi in cerchio, uno di fronte all'altro, cosicché le loro tonache sembravano far parte di un unico organismo.

Intonavano un canto doloroso, che aveva accenti di solitudine e di disperazione. Non era un canto di morte, perché un canto di morte contiene sempre un nota di sfida. Il canto degli Infiniti non conteneva né sfida né speranza: era la nenia funebre per la morte dell'universo.

Dall'immobilità che gravava su di loro, scorse una voce mentale che disse: “Il vostro peccato è quello di avere commesso un errore di valutazione. Voi Infiniti avete peccato di orgoglio. Non c'è dubbio, la vostra tecnica è della più elevata qualità, ma l'avete usata troppo presto. Avete condannato i membri di un'altra razza a uno stato mentale più basso di quello che erano destinati a raggiungere. Il popolo del pianeta chiamato Terra non aveva ancora raggiunto gli stadi finali del suo sviluppo, diversamente da quello che voi pensavate. Si stava semplicemente riposando. Se avesse avuto a disposizione dell'altro tempo… tempo che voi non gli avete concesso… avrebbe potuto giungere a una nuova intellettualità. Agendo troppo presto, lo avete reso cittadino dell'universo inferiore agli altri. Questo vi condanna, e pone su di voi una maledizione. Verrete riportati tra i vostri compagni per informarli di questa sentenza. La loro punizione, e la vostra, consiste nella conoscenza dell'ingiustizia commessa. Dovrete portare il peso di questa colpa finché sarà viva la vostra razza”.

La voce tacque. Gli Infiniti non stavano più raggomitolati l'uno accanto all'altro, simili a una tenda nera: erano scomparsi.

Corcoran emise finalmente il respiro, dopo averlo trattenuto fino a quel momento.

— Accidenti! — esclamò.

— Comunque — disse Muso di Cavallo — qui tutto è finito. Adesso che il giudizio è stato pronunciato possiamo andarcene. — Dette queste parole, si arrampicò sulla rete.

Erano in sette, contò Boone: Enid, Corcoran, Lupo, Muso di Cavallo, il robot cuciniere, il Cappello e lui stesso. All'inizio erano in undici, ma Martin era caduto dalla rete, e i tre Infiniti erano spariti dopo la condanna.

— Continuiamo a diminuire di numero — disse, parlando tra sé. Chi sarà il prossimo a sparire?

“Tu non puoi sparire” gli disse il Cappello. “C'è ancora dell'altro, per te”

— Cappello, cominciamo a essere stufi — disse Corcoran. — Stufi di te e del tuo Popolo dell'Arcobaleno, stufi di processi e di ritardi. I tuoi giochetti sono durati più del necessario.

Lupo si avvicinò a Boone, che si inginocchiò accanto a lui e gli circondò le spalle con il braccio. Enid si avvicinò a Boone e Lupo e si chinò su di loro. Fece per dire qualcosa. Poi scomparve.

Boone si accorse di non trovarsi più sul geometrico e bianco mondo di cristallo. Era inginocchiato, con un braccio intorno alle spalle di Lupo, su una scarpata lunga e scoscesa, tra monti altissimi, sotto un cielo d'un pallido colore azzurro. Le montagne erano coperte di alberi vecchi e nodosi, di massi che sembravano teschi grigi e lucidi. Dal fondo della scarpata saliva un forte vento. In basso si scorgeva il luccichio dell'acqua corrente.

Si alzò in piedi e si guardò attorno. Il mondo di cristallo era scomparso; non se ne scorgeva più nessuna traccia. Lui e Lupo erano soli in quel luogo sconosciuto. Gli altri non c'erano.

Evidentemente, pensò, aveva girato dietro un altro angolo, anche se non c'erano motivi immediati per farlo. Non aveva corso nessun pericolo. Ed era sicuro di non avere fatto niente per trasferire se stesso e Lupo in quel luogo.

Si rivolse a Lupo: — Tu, cosa ne pensi?

Lupo non rispose.

— Boone! — gridò una voce — Boone, siete qui? Dove siete?

— Enid! — esclamò lui.

Poi la vide, un po' più in alto, che correva sulla ghiaia malsicura della scarpata, diretta verso di lui.

Boone le corse incontro. Enid inciampò e lui fece uno scatto cercando di afferrarla. Ma la ghiaia cedette sotto i suoi piedi, e anche lui cominciò a scivolare.

Scivolarono lungo la ghiaia e il terriccio, fino al punto dove li aspettava Lupo. Si rialzarono a pochi passi di distanza l'uno dall'altra e scoppiarono a ridere, come per scusarsi di avere commesso una sciocchezza. Boone allungò la mano per scostare dagli occhi di Enid una ciocca di capelli fuori posto. La mano, sporca di terra, le lasciò una striscia scura sul naso.

— Cos'è successo? — domandò lei. — Come siamo arrivati qui? Avete girato un altro angolo?