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Lui scosse la testa. — No. Non c'era nessuna minaccia niente che potesse indurmi a farlo.

— E allora?

— Non so — disse lui. Si avvicinò alla donna e alzò la mano. — Avete della terra sul naso. Vi pulisco.

— E gli altri?

— Suppongo che siano ancora dove li abbiamo visti l'ultima volta.

— Boone, ho paura. Non avete idea di dove possiamo essere?

— Non lo so — disse lui. — E ho paura anch'io.

Si sedettero l'uno accanto all'altra e studiarono a lungo la scarpata battuta dal vento. Lupo si sedette davanti a loro e continuò a fissarli.

Poi la voce senza suono del Popolo dell'Arcobaleno parlò loro: non giungeva da nessuna direzione, e le parole echeggiavano direttamente nella loro testa. La voce non aveva toni di minaccia, e neppure di consolazione. Era una voce piatta e monotona.

“Ascoltateci attentamente” disse. “Vi parliamo dell'universo”.

— Sarebbe presuntuoso da parte mia, occuparmi di questi problemi — disse Boone. — Io non so niente dell'universo.

“Uno di voi” disse la voce “ha riflettuto a lungo su questi argomenti”.

— “A lungo” proprio non direi — commentò Enid. — Comunque, qualche volta mi sono chiesta che cos'è, e a che cosa tende.

“Allora, ascoltate” disse la voce. “Ascoltate attentamente”.

E un flusso di pensieri picchiò con violenza su di loro. Una forza schiacciante, una corrente di parole semicomprensibili, di pensieri senza parole, carichi di informazioni.

Boone si sentì tremare le gambe, come se un vento forte e pericoloso gli soffiasse contro mente e corpo.

— Mio Dio! — esclamò, e scivolò a terra. Come dietro un velo, scorse Enid, seduta a pochi passi di distanza, e cercò di strisciare fino a lei, come per trovare un'isola di calore e di stabilità nella tempesta di informazioni che minacciava di travolgerlo.

Poi la tempesta si calmò e si allontanò, e Boone si trovò steso in terra. Lupo si era accucciato accanto a lui e piagnucolava piano.

Ancora incapace di alzarsi, Boone raggiunse Enid e infine riuscì a mettersi a sedere. Lei rimaneva immobile, come se non si fosse accorta della presenza di Boone, e neppure della propria. Lui la abbracciò, ed Enid si avvicinò a lui. Boone la strinse forte.

— Sapete che cosa è successo? — le domandò. — Ricordate qualcosa di ciò che hanno detto?

— No, non ricordo niente — mormorò lei. — Mi pare di avere tutto nella mente, impacchettato e compresso, ma non riesco ancora a richiamarlo alla memoria. Ho la testa piena di informazioni fino a scoppiare…

Una voce gridò qualcosa: una voce forte e sgraziata. Una voce che si poteva udire, e che pronunciava parole vere e proprie.

Boone si affrettò ad alzarsi in piedi. Davanti a loro, c'era qualcosa che sbatteva nell'aria, ed era la rete. Sopra c'era Muso di Cavallo, a cavalcioni come un marinaio ubriaco su una lancia rovesciata dalle onde.

— Svelti, svelti! — gridava Muso di Cavallo. — Salite sulla rete. Dobbiamo lasciare subito questo posto.

La rete si era abbassata fino a lui, e Boone aiutò Enid ad alzarsi in piedi e a salire. Lupo aveva già spiccato un balzo ed era sopra la rete. Muso di Cavallo si sporse e tese un braccio verso Boone. — Su, salite — disse, afferrandogli la mano e tirando.

All'altro lato della rete c'era Corcoran, che si teneva a una maglia con tutte le sue forze. C'era anche il robot, che si lamentava: — Tutta la mia attrezzatura è scomparsa! Come farò a prepararvi i pasti?

— Siamo scappati via di corsa — spiegò Muso di Cavallo. — Quel mucchio di cristalli ci stava scomparendo sotto i piedi.

— Come avete fatto, per trovarci? — domandò Enid.

— Il visore che avete rubato nel mondo rosa e viola — disse Muso di Cavallo. — Era sulla rete, con lo schermo dalla mia parte. L'ho guardato per caso, chiedendomi dove eravate finiti, e ho visto la vostra immagine. E quando vi ho visto, anche la rete ha saputo dove venire a prendervi.

— Dove andiamo adesso? — domandò Corcoran.

— Dove intendavamo andare fin dal primo momento — disse Muso di Cavallo — se non avessimo dato retta al Cappello. Sulla stella mostrata dalla carta, quella segnata dalla X.

— E il Cappello? — chiese Boone. — Non lo vedo.

— Disgraziatamente — disse Muso di Cavallo, in tono untuoso — il poveretto non è riuscito a raggiungere la rete nello scarso tempo a disposizione.

15. Henry

Il sole rosso e gonfio illuminava un mondo quasi vuoto e privo di erba e di altra vegetazione, a parte l'albero solitario che si alzava davanti a Henry. Raggruppando le sue scintille come se avesse paura di quel mondo scostante. Henry si avvicinò alla pianta. Ma non aveva paura, perché, in tutti i suoi anni di vagabondaggi, aveva visto troppe cose di cui avere paura.

Il cielo era scuro, come se stesse per avvicinarsi una tempesta, anche se nulla faceva pensare che si stesse avvicinando davvero.

La fine del mondo, si disse. L'inizio della fine, con un sole ormai morente, instabile, pronto a trasformarsi in una gigante rossa.

L'albero di fronte a lui non gettava ombra. E per la prima volta nella sua vita Henry si trovava immerso in un assoluto silenzio. Nessun uccello gridava nel cielo, nessun insetto friniva a terra, non soffiava un alito di vento. Ogni cosa era assolutamente immobile.

Poi, all'interno della sua mente, una voce domandò: “Sei nuovo, qui”?

Se avesse ancora posseduto un corpo, avrebbe fatto un sobbalzo. Ma ora non poteva fare gesti di sorpresa. Rispose, con calma: “Sì, sono nuovo. Sono appena arrivato. Con chi parlo?”

La voce interiore disse: “Sono l'albero. Perché non vieni a riposare sotto la mia ombra”?

“Non hai ombra!” esclamò Henry. “Questo sole troppo gonfio non manda ombre”.

“Ho parlato per forza dell'abitudine” disse l'albero. “L'abitudine presa all'epoca in cui avevo un'ombra da offrire. È passato molto tempo dall'ultima volta in cui ho avuto occasione di parlare con qualcuno, e me n'ero dimenticato. A volte, fermo nella mia solitudine, mi metto a fare discorsi a voce alta, privi di senso. Parlo con me stesso, visto che non c'è nessun altro con cui parlare”.

“Non mi occorre la tua ombra” disse Henry. “Ma mi occorre la tua compagnia e mi occorrono le informazioni che puoi darmi, se sei disposto a concedermele”.

Così dicendo si accostò maggiormente all'albero.

“Che informazioni desideri”? gli chiese l'albero. “Può darsi che quelle che posso darti non siano molte, ma ti dirò quello che so”.

“Tu sei un albero intelligente” disse Henry. “E costituisci la concreta dimostrazione di una credenza condivisa da molti antichi esseri umani. Mia sorella, che non vedo da molto tempo, credeva fermamente… e assurdamente, secondo noi… che gli alberi fossero destinati a succedere all'uomo. Adesso, incontrandoti, vedo che aveva ragione. Era una persona molto sensibile”.

“Tu sei forse un umano”? domandò l'albero.

“In parte” rispose Henry. “Un umano sconfitto. E questo mi porta a un'altra domanda. Che cosa è successo a quei grandi sciami di scintille che un tempo si trovavano nel cielo? Una volta ce n'erano moltissime”.

“Li ricordo ancora” disse l'albero “ma non bene. Devo riandare molto indietro nei miei ricordi. Nel cielo c'erano tante luci. Alcune erano stelle, altre erano quelle che tu chiami scintille. Le stelle ci sono ancora, e a tempo debito le vedrai. Quando il sole scende all'orizzonte occidentale, le puoi vedere all'orizzonte orientale. Ma le scintille non potrai vederle; se ne sono andate via, molto tempo fa. Si sono allontanate. Poche alla volta. Sono sicuro che non sono morte; si sono soltanto allontanate, come per andarsene altrove. Mi puoi spiegare cosa erano gli umani? Erano fatti come te?”