— Tom — chiese Enid — cosa ricordi di ciò che il Popolo dell'Arcobaleno ci ha infilato a forza nella mente?
— Qualcosa — disse Boone. — Sta ritornandomi in mente a pezzi e bocconi. Ce l'hanno messo in testa sotto forma di una singola massa indigeribile, ma adesso comincia a sciogliersi un po' per volta.
— Ci hanno dato delle conoscenze che richiedevano giorni per essere assorbite. Non ne abbiamo ancora parlato, ma forse è il momento di farlo.
Boone annuì. — Può darsi. Ma non riesco ancora a capire perché hanno scelto noi.
— Forse hanno saputo che continuavo da anni a chiedermi il significato dell'universo. Tu, forse, sei stato scelto nella tua veste di raccoglitore professionale di notizie. Cosa ricordi?
— Non molto, per il momento. La cosa che mi sembra di ricordare più chiaramente è che nell'universo, per produrre la vita, occorrono talune condizioni molto speciali. Molte delle informazioni sulla fisica e sulla chimica mi risultano ancora incomprensibili, ma c'era anche qualche informazione sulle stelle instabili e sulle loro condizioni di esistenza. Oltre alle stelle stabili, perché nasca la vita sono necessarie anche quelle instabili: sono esse che trasformandosi in supernove creano gli elementi più pesanti, indispensabili alla vita.
Enid aggrottò le sopracciglia. — Ricordo qualcosa. Ma se ci penso troppo mi viene il mal di testa. Ricordo che dicevano che l'universo è una sorta di fabbrica per la produzione della vita e per far nascere, almeno in una parte delle forme di vita, l'intelligenza. Consideravano l'universo come una macchina per produrre la vita e la coscienza. Senza la coscienza e senza l'intelligenza, l'universo non avrebbe scopo.
— Hanno anche parlato dell'origine dell'universo — aggiunse Boone. — Non come una loro ipotesi, ma come se lo sapessero con certezza. Sono concetti al di sopra della mia portata, anche se già nella mia epoca gli astrofisici cercavano di ricostruire gli avvenimenti del primo microsecondo di esistenza dell'universo. Alla tua epoca Enid, erano finalmente riusciti a spiegare quel primo istante?
— Non so. Ricorda, Tom, che noi eravamo ai margini della nostra cultura — disse. — Il Popolo dell'Arcobaleno parlava di un ordine superiore di intelligenza, un'intelligenza istintiva che non si basa sulla ragione. Ne parlavano come se avessero raggiunto quel livello. Forse non riusciamo a capire che cosa volevano veramente dire.
— Forse. Ma credo che con il passare del tempo ricorderemo e comprenderemo sempre di più. Dobbiamo aspettare — disse Boone.
E forse, pensò, non comprenderemo mai del tutto. Forse nemmeno il Popolo dell'Arcobaleno era in grado di raggiungere una piena comprensione della vita e dell'universo. Ma almeno la stavano cercando. Anche lì al Centro Galattico c'erano degli individui che cercavano le risposte in tanti modi diversi. La fine della ricerca non si vedeva ancora, ma il desiderio di sapere era sempre vivo. Finché esisteva questo desiderio, si poteva sperare che il mistero dello scopo dell'universo venisse risolto, prima o poi.
Sedevano tranquillamente l'uno accanto all'altra, tenendosi per mano. Sentivano sulla pelle il tepore del sole, e giungeva fino a loro il profumo dei fiori. La curva digradante del prato dava un senso di tranquillità e di soddisfazione.
— Tra poco Corcoran e Muso di Cavallo partiranno — disse Enid. — Mi spiace che se ne vadano. Timothy mi ha detto che il Centro poteva servirsi di loro, e anche a lui spiace che partano. Ho pensato che intendessi partire anche tu. Ma oggi hai promesso al Centro che rimarrai qui a studiare.
— È la mia scusa per rimanere. Dovevo dire qualcosa — spiegò Boone. — Non volevo dire loro la vera ragione: che resto perché ho incontrato nella corrente del tempo una donna che ho imparato ad amare.
— Non mi avevi mai detto queste parole — disse Enid. — Io ho capito di amarti quando mi hai consolato mentre piangevo per David. Mi occorreva della forza, e tu mi hai dato forza e comprensione.
— Non sono mai riuscito a dirtelo — spiegò Boone. — Io son abile con le parole quando si tratta di descrivere gli avvenimenti, ma le parole dei sentimenti mi riescono difficili.
Dal fondo del prato giunse una serie di rumori. Boone si alzò in piedi. — Lupo! — gridò.
— Ha trovato qualcosa — disse Enid.
Da dietro un cespuglio, spuntò Lupo. Scagliò qualcosa nell'aria e lo afferrò al volo, tra le zanne, poi si avviò verso Enid e Boone, trotterellando. Il Cappello gli pendeva dalle fauci.
Lupo lasciò cadere il Cappello davanti a loro. Pareva al settimo cielo.
— Ha di nuovo il suo vecchio giocattolo — esclamò Enid. — Ha trovato il suo pupazzo.
Il Cappello ritornò in vita e si mise a sedere.
“Voi non capite” disse il Cappello. Poi si afflosciò.
Lupo raccolse con calma la bambola e risalì saltellando allegramente lungo il prato.
17. Martin
Martin si allontanò dalla strada e diresse il suo vecchio e cigolante veicolo verso una discesa che portava a un torrente asciutto. La batteria era di nuovo scarica, e prima di ritornare utilizzabile occorreva che si ricaricasse per alcune ore attraverso i pannelli solari. Quando l'automobile si fermò, notò con soddisfazione che risultava invisibile dalla strada. Non c'era molto traffico in quel paese di miserabili ma era meglio nascondere il veicolo. Era vecchio, ma conteneva ancora parti che si potevano rubare, se il proprietario non era in grado di difendere la sua proprietà.
Un mondo miserabile, si disse; senza denaro, senza credito, con poche occasioni di guadagno, e con il senso della legge più basso che si potesse immaginare: ciascuno si faceva la sua legge, se aveva muscoli a sufficienza per farla rispettare.
C'era una depressione economica su scala mondiale, se Martin aveva capito bene. Non poteva averne la certezza, poiché non aveva dati e nessuno pareva conoscere cosa succedeva nel mondo. C'era ancora la radio, gli avevano detto, anche se, nel paesucolo in cui si era ritrovato, nessuno possedeva un apparecchio radio, né tanto meno un televisore, ammesso che esistesse ancora la televisione. Quando aveva chiesto se ci fossero giornali, gli abitanti del villaggio lo avevano guardato senza capire.
Quando, alcune settimane prima, era giunto al villaggio, la gente si era allontanata da lui impaurita, unendosi in piccoli gruppi per fissarlo come se fosse stato un animale selvaggio disceso dalla sua tana fra le montagne.
Dopo qualche tempo, un vecchio che pareva avere una certa autorità si era avvicinato a lui e gli aveva parlato in una lingua sufficientemente comprensibile, anche se piena di parole e di intonazioni sconosciute. Udendo il racconto di Martin, non gli aveva creduto. Si era portato un dito alla tempia e l'aveva girato in tondo, come per indicare un debole di mente.
Per pura bontà di cuore, gli avevano dato del cibo e un letto. Nei giorni seguenti, parlando con gli uomini del villaggio, aveva saputo di trovarsi sulla Terra, nel ventitreesimo secolo, anche se nessuno sapeva l'anno esatto. Udendo questo, maledisse fra sé il mostro dal Muso di Cavallo, che senza dubbio era quello che lo aveva cacciato fuori dalla rete.
Rimase nel villaggio per qualche settimana, anche se non tenne il conto del tempo. In quel villaggio era facile perdere il conto di tutto. Aiutò a zappare nei campi di granturco, attività a lui poco congeniale, e a portare acqua da un piccolo fiume che scorreva a circa un chilometro dal villaggio. Imparò a mettere trappole per i conìgli e cercò di imparare l'uso dell'arco, ma con poca perizia.
Parlando con gli abitanti del villaggio era venuto a conoscenza di una strada poco più larga del sentiero che lo aveva condotto al villaggio, collocata poco più a nord: una strada che si congiungeva con una grande strada diritta che correva da est a ovest. Seguendo quella strada si arrivava infine alle città. Martin aveva l'impressione che anche queste fossero poco più che villaggi, ma con un maggior numero di persone e condizioni di vita meno pesanti.