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«Ha una macchina?» le chiese il giovane italiano, sorseggiando il suo caffè.

Charley spuntò dalla cucina, con in mano il suo piatto.

«Potrebbe accompagnarmi lei.» I suoi occhi accesi e decisi la fissavano ancora, e lei sentì crescere il proprio nervosismo, così come l’incapacità di reagire. «In quel motel, o dovunque possa trascorrere la notte. Che ne dice?»

«Sì,» disse la donna. «Ho una macchina. Una vecchia Studebaker.»

Il cuoco rivolse un’occhiata prima a lei, poi al giovane camionista, infine le mise il piatto davanti, sopra il bancone.

L’altoparlante in fondo al corridoio annunciò: «Achtung, meine Damen und Herren [Attenzione, signore e signori].» Baynes sobbalzò sul sedile e aprì gli occhi. Dal finestrino sulla destra vide, giù in basso, le macchie verdi e marroni della terraferma, e più in là l’azzurro. Il Pacifico. Si rese conto che il razzo aveva iniziato la sua lunga, lenta discesa.

Prima in tedesco, poi in giapponese, infine in inglese, l’altoparlante spiegò che nessuno poteva fumare o slacciare la cintura del sedile imbottito. La discesa, riferì, sarebbe durata otto minuti.

In quel momento si accesero i retrorazzi, in modo così improvviso e rumoroso, facendo sussultare la nave con tale violenza, che diversi passeggeri boccheggiarono. Baynes sorrise e nel sedile di fronte a lui, al di là del corridoio, un altro passeggero, un giovane con i capelli biondi tagliati cortissimi sorrise anche lui.

«Sie furchten dasz… [Hanno paura che…]» cominciò il giovane, ma Baynes lo interruppe subito, spiegando in inglese: «Mi dispiace, non parlo tedesco.» Il giovane tedesco lo guardò a bocca aperta, con aria interrogativa, e allora Baynes gli ripeté la frase in tedesco.

«Non è tedesco?» disse il giovane, stupito, in un inglese dal pesante accento.

«Sono svedese,» disse Baynes.

«Si è imbarcato a Tempelhof.»

«Sì. Ero in Germania per affari. Il mio lavoro mi porta in molti paesi.»

Chiaramente il giovane tedesco non riusciva a credere che qualcuno, al mondo d’oggi, qualcuno che trattava affari a livello internazionale e che viaggiava — anzi, che poteva permettersi di viaggiare — sul più sofisticato razzo della Lufthansa, non sapesse o non volesse parlare tedesco. «Di quale settore si occupa, mein Herr?» chiese a Baynes.

«Plastica. Poliesteri. Resine. Ersatz… [Sostituto, surrogato] per uso industriale. Capisce? Non per il consumo al dettaglio.»

«La Svezia possiede un’industria della plastica?» Aveva un’aria incredula.

«Sì. E molto avanzata. Se mi lascia il suo nome le farò avere per posta un opuscolo informativo della ditta.» Baynes estrasse penna e taccuino.

«Non importa. Sarebbe inutile, per me. Sono un artista, non mi interesso di affari. Senza offesa. Magari lei ha visto i miei lavori, mentre si trovava nel Continente. Alex Lotze.» Attese.

«Temo di non avere un grande interesse per l’arte moderna,» disse Baynes. «Amo i vecchi cubisti e gli astrattisti di anteguerra. A me piace un’immagine che significhi qualcosa, e che non sia la semplice rappresentazione di un ideale.» Distolse lo sguardo.

«Ma è quello il fine dell’arte,» disse Lotze. «Favorire la spiritualità dell’uomo a scapito della sua sensualità. La sua arte astratta simboleggiava un periodo di decadenza, di confusione spirituale, conseguenza della disintegrazione della società, della vecchia plutocrazia. I miliardari ebrei e capitalisti, l’apparato internazionale che sosteneva quella forma d’arte decadente. Quei tempi sono passati; l’arte deve andare avanti… non può rimanere ferma.»

Baynes annuì, fissando fuori dal finestrino.

«È mai stato sul Pacifico?» gli domandò Lotze.

«Molte volte.»

«Io no. C’è una mostra delle mie opere a San Francisco, organizzata dall’ufficio del dottor Goebbels insieme alle autorità giapponesi. Uno scambio culturale per promuovere la reciproca comprensione e le buoni relazioni. Dobbiamo alleggerire le tensioni fra Est e Ovest, non crede? Dobbiamo comunicare di più, e l’arte può essere un ottimo strumento.»

Baynes annuì. In basso, sotto l’anello di fuoco emesso dal razzo, si potevano già scorgere la città di San Francisco e la Baia.

«Dove si può mangiare, a San Francisco?» stava chiedendo Lotze. «Ho prenotato al Palace Hotel, ma mi risulta che si possono trovare degli ottimi ristoranti nella parte internazionale, per esempio a Chinatown.»

«E vero,» confermò Baynes.

«I prezzi sono alti, a San Francisco? Sono venuto a mie spese. Il Ministero è molto frugale.» Lotze rise.

«Dipende dal cambio che riesce a ottenere. Immagino che lei abbia con sé assegni della Reichsbank. Le consiglio di andare alla Bank of Tokyo, in Samson Street, e di cambiarli là.»

«Danke sehr,» disse Lotze. «Io li avrei cambiati in albergo.»

Il razzo aveva quasi toccato il suolo. Adesso Baynes poteva vedere il campo di atterraggio, gli hangar, i parcheggi, l’autobahn che veniva dalla città, gli edifici… un panorama molto piacevole, pensò. Montagne e acqua, e qualche nuvola di nebbia che fluttuava accanto al Golden Gate.

«Che cos’è quell’enorme struttura laggiù?» chiese Lotze. «È incompleta, ed è aperta da un lato. Uno spazioporto? I nipponici non hanno una flotta spaziale, a quanto mi risulta.»

Con un sorriso, Baynes rispose, «Quello è il Golden Poppy. Lo stadio di baseball.»

Lotze scoppiò a ridere. «Già, a loro piace il baseball. È incredibile. Hanno messo mano a una struttura così grande solo per un gioco, per uno stupido sport che fa perdere tempo…»

«È finita,» lo interruppe Baynes. «Quella è la sua forma definitiva. Aperta da un lato. Un nuovo disegno architettonico. Ne sono molto orgogliosi.»

«Sembra progettata da un ebreo,» disse Lotze, guardando verso il basso.

Baynes fissò l’uomo a lungo. Ebbe la netta, momentanea sensazione della qualità squilibrata, della vena psicotica insita nella mente dei tedeschi. Lotze aveva parlato sul serio? La sua era stata un’osservazione veramente spontanea?

«Spero che ci rincontreremo, a San Francisco,» disse Lotze mentre il razzo toccava il suolo. «Mi sentirò sperduto, senza un connazionale con cui parlare.»

«Io non sono un suo connazionale,» disse Baynes.

«Oh, sì, è vero. Ma dal punto di vista razziale siamo molto vicini. E anche sotto il profilo delle intenzioni e degli obiettivi.» Lotze cominciò a muoversi sul sedile, preparandosi a slacciare la complicata cintura di sicurezza.

Sono simile a quest’uomo, dal punto di vista razziale? si domandò Baynes. Simile a tal punto da avere le stesse intenzioni e gli stessi obiettivi? Allora c’è anche in me quella vena psicotica. È un mondo psicotico, quello in cui viviamo. I pazzi sono al potere. Da quanto tempo lo sappiamo? Da quanto tempo affrontiamo questa realtà? E… quanti di noi lo sanno? Non Lotze. Forse se uno sa di essere pazzo, allora non è pazzo. Oppure può dire di essere guarito, finalmente. Si risveglia. Credo che solo poche persone si rendano conto di tutto questo. Persone isolate, qua e là. Ma le masse… che cosa pensano? Tutte le centinaia di migliaia di abitanti di questa città. Sono convinte di vivere in un mondo sano di mente? Oppure intravedono, intuiscono in qualche modo la verità?

Ma, pensò, che cosa significa la parola pazzo? È una definizione legale. E per me, che significato ha? Io la sento, la vedo, ma che cos’è?

È qualcosa che fanno, pensò, qualcosa che sono. È la loro inconsapevolezza. La loro mancanza di conoscenza degli altri. Il fatto di non rendersi conto di ciò che fanno agli altri, della distruzione che hanno causato e che stanno ancora causando. No, pensò. Non è quello. Non lo so; lo sento, lo intuisco, ma… sono volutamente crudeli… è quello? No. Dio, pensò, non riesco ad arrivarci, a chiarire il concetto. Forse ignorano parti della realtà? Sì. Ma c’è di più. Sono i loro progetti. Sì, i loro progetti. La conquista dei pianeti. Qualcosa di frenetico e di folle, così come lo è stata la loro conquista dell’Africa, e prima ancora dell’Europa e dell’Asia,