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«Ascolta. Che cosa dice di Pearl Harbor?» chiese Wyndham-Matson.

«Il presidente Tugwell se la cava benissimo. Fa uscire tutte le navi in mare aperto, e la flotta americana non viene distrutta.»

«Capisco.»

«Perciò non c’è una vera e propria Pearl Harbor. I giapponesi attaccano, ma riescono ad affondare solo qualche nave di minore importanza.»

«E si chiama La cavalletta… qualchecosa

«La cavalletta non si alzerà più. È una citazione dalla Bibbia.»

«E il Giappone viene sconfitto perché non c’è una Pearl Harbor. Stammi a sentire. Il Giappone avrebbe vinto comunque. Anche senza Pearl Harbor.»

«La flotta americana, in questo libro, impedisce ai giapponesi di impadronirsi delle Filippine e dell’Australia.»

«Le avrebbero prese in ogni caso; la loro flotta era superiore. Conosco abbastanza bene i giapponesi, ed erano destinati a conquistare il controllo del Pacifico. Gli Stati Uniti erano in declino fin dalla Prima Guerra Mondiale. Quella guerra ha rovinato ogni paese alleato, sia dal punto di vista morale che materiale.»

Ostinatamente, la ragazza proseguì: «E se i tedeschi non avessero preso Malta, Churchill sarebbe rimasto al potere e avrebbe guidato gli inglesi alla vittoria.»

«Come? Dove?»

«Nel Nord Africa… alla fine Churchill avrebbe sconfitto Rommel.»

Wyndham-Matson sghignazzò.

«E una volta sconfitto Rommel, gli inglesi avrebbero potuto spostare tutto il loro esercito e attraverso la Turchia si sarebbero uniti ai rimasugli delle armate russe, e avrebbero organizzato la resistenza… nel libro, l’avanzata dei tedeschi verso la Russia viene bloccata su una città del Volga. Noi non l’abbiamo mai sentita nominare, ma esiste veramente perché l’ho cercata sull’atlante.»

«E come si chiama?»

«Stalingrado. E lì gli inglesi capovolgono le sorti della guerra. Così, nel libro, Rommel non riesce a ricongiungersi con le divisioni tedesche che scendono dalla Russia, quelle di von Paulus, ti ricordi? E i tedeschi non possono raggiungere il Medio Oriente per rifornirsi di petrolio, e nemmeno l’India, come hanno fatto, per riunirsi con i giapponesi. E…»

«Nessuna strategia al mondo avrebbe potuto sconfiggere Erwin Rommel,» disse Wyndham-Matson. «E nessuno degli avvenimenti sognati da quel tizio… questa città russa chiamata eroicamente “Stalingrado”, e qualsiasi azione di resistenza avrebbe semplicemente ritardato gli eventi; non avrebbe potuto cambiarli. Stammi a sentire. Io ho conosciuto Rommel. A New York, quando mi trovavo là per affari, nel 1948.» Per la verità, lui aveva semplicemente visto, e da lontano, il Governatore Militare degli Stati Uniti d’America in un ricevimento alla Casa Bianca. «Un uomo straordinario, grande dignità e portamento. Perciò so bene quello che dico,» concluse.

«È stata una cosa orribile,» disse Rita, «quando il generale Rommel è stato sollevato dal suo incarico e quel disgustoso Lammers ha preso il suo posto. È allora che sono cominciate veramente le uccisioni e i campi di concentramento.»

«Esistevano già quando Rommel era Governatore Militare.»

«Ma…» La ragazza gesticolò. «Non era ufficiale. Forse quei delinquenti delle SS già lo facevano… ma lui non era come gli altri; era più simile agli antichi prussiani. Era duro…»

«Te lo dico io, chi ha fatto davvero un buon lavoro negli Stati Uniti,» disse Wyndham-Matson. «Chi ha il merito della rinascita economica. Albert Speer. Non Rommel e nemmeno l’organizzazione Todt. Speer è stato l’uomo migliore che la Partei abbia mandato in Nord America; è stato lui a rimettere in moto gli affari, le imprese, le fabbriche… tutto! E su una base di grande produttività. Magari lo avessimo avuto qui da noi… adesso abbiamo cinque grandi organizzazioni in concorrenza fra loro, ed è solo un grande spreco di risorse. Non c’è niente di più sciocco della competizione economica.»

«Io non potrei vivere in quei campi di lavoro,» disse Rita, «in quei dormitori che ci sono nell’Est. Una mia amica c’è stata. Censuravano la sua posta… non mi ha potuto raccontare niente finché non si è trasferita di nuovo qui. Si alzavano alle sei e mezzo del mattino al suono di una banda musicale.»

«Ci avresti fatto l’abitudine. Avresti avuto alloggi puliti, cibo di buona qualità, la ricreazione, l’assistenza medica. Che cosa pretendi, la botte piena e la moglie ubriaca?»

La grossa automobile di fabbricazione tedesca procedeva silenziosamente nella fredda nebbia notturna di San Francisco.

Il signor Tagomi era seduto sul pavimento a gambe incrociate. Aveva in mano una tazzina senza manico di tè oolong, nella quale ogni tanto soffiava, mentre sorrideva al signor Baynes.

«Lei ha un appartamento delizioso,» fu il commento di Baynes. «C’è una grande tranquillità, qui sulla Costa Occidentale. È completamente diverso da… laggiù.» Non disse dove.

«“Dio parla all’uomo nel segno del Risveglio”,» mormorò il signor Tagomi

«Prego?»

«L’oracolo. Mi scusi. Un responso corticale automatico.»

Sta sognando a occhi aperti, pensò Baynes. È il suo modo di esprimersi. Sorrise fra sé.

«Noi siamo assurdi,» disse il signor Tagomi, «perché la nostra vita si basa su un libro di cinquemila anni fa. Gli rivolgiamo delle domande come se fosse vivo. Ma è vivo. È come la Bibbia dei cristiani; molti libri sono veramente vivi. Non in senso metaforico. Lo spirito li anima. Capisce?» Esaminò il volto del signor Baynes in cerca di una reazione.

Scegliendo attentamente le parole, Baynes disse: «Io… proprio non mi intendo abbastanza di religione. Esula dal mio campo. Preferisco restare su argomenti che conosco.» In verità, non aveva capito bene di che cosa stesse parlando il signor Tagomi. Devo essere stanco, pensò Baynes. Da quando sono arrivato, questa sera, c’è sempre stato una specie di… ridimensionamento di ogni cosa. Come se tutto fasse più piccolo del normale, con una punta di bizzarria. Che cos’è questo libro di cinquemila anni fa? L’orologio di Topolino, lo stesso signor Tagomi e quella fragile tazzina che tiene in mano… e, sulla parete proprio di fronte al signor Baynes, una enorme testa di bufalo, brutta e minacciosa.

«Che cos’è quella testa?» chiese improvvisamente.

«Quella…» disse il signor Tagomi, «si tratta nientemeno che della creatura che sostentava gli aborigeni nei tempi antichi.»

«Capisco.»

«Vuole che le spieghi l’arte della caccia al bufalo?» Il signor Tagomi poggiò la tazza sul tavolino e si alzò in piedi. A casa sua, la sera, indossava una lunga veste di seta, pantofole e un fazzoletto al collo. «Eccomi sul mio cavallo.» Fece il gesto di accovacciarsi. «In grembo, il mio fidato Winchester 1866, tolto dalla mia raccolta.» Rivolse un’occhiata interrogativa al signor Baynes. «Lei è stanco del viaggio, signore.»

«Ho paura di sì,» replicò Baynes. «Sono un po’ frastornato. Molte preoccupazioni di lavoro…» E altre preoccupazioni, pensò. La testa gli doleva. Si domandò se lì sulla Costa Occidentale si potessero trovare quegli ottimi analgesici della I.G. Farben; si era abituato a prenderli per le emicranie da sinusite.

«Tutti dobbiamo avere fede in qualcosa,» disse il signor Tagomi. «Non possiamo conoscere le risposte. Non possiamo guardare avanti, da soli.»

Baynes annuì.

«Mia moglie potrebbe avere qualcosa per il suo mal di testa,» disse il signor Tagomi, vedendo che l’altro si sfilava gli occhiali e si massaggiava la fronte. «I muscoli oculari causano dolore. Mi scusi.» Si inchinò e lasciò la stanza.