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«Hai sentito lo spettacolo di Bob Hope, ieri sera?» gli gridò dalla cucina. «Ha raccontato una storiella molto divertente, quella in cui un maggiore tedesco intervista alcuni marziani. Be’, sai, i marziani non possono fornire una documentazione da cui risulti che i loro nonni sono ariani. E così il maggiore tedesco riferisce a Berlino che Marte è popolato da ebrei.» Entrò in soggiorno dove Joe era sdraiato sul letto, e continuò: «E sono alti appena trenta centimetri, e hanno due teste… lo sai, come le racconta Bob Hope.»

Joe aveva aperto gli occhi. Non disse nulla; si limitò a fissarla senza battere le palpebre. Il mento, nero per la barba, i suoi occhi scuri, pieni di dolore… allora si calmò anche lei.

«Cosa succede?» gli chiese alla fine. «Hai paura?» No, pensò; era Frank che aveva paura. Questa è… non lo so neanch’io.

«Il camion se ne è andato,» disse Joe, mettendosi a sedere sul letto.

«Che cosa hai intenzione di fare?» Juliana si sedette sul bordo del letto, asciugandosi le braccia e le mani con lo strofinaccio.

«Lo riprenderò quando ripassa. Non dirà niente a nessuno; sa che io farei lo stesso per lui.»

«L’avevi mai fatto, prima?»

Joe non rispose. Volevi perderlo, disse fra sé Juliana. Ne sono sicura; all’improvviso lo so con certezza.

«E se facesse un altro itinerario?» gli chiese.

«Percorre sempre la Cinquanta. Mai la Quaranta. Una volta ha avuto un incidente sulla Quaranta; dei cavalli hanno invaso la strada e lui li ha presi in pieno. In mezzo alla Montagne Rocciose.» Raccolse i suoi abiti dalla sedia e cominciò a vestirsi.

«Quanti anni hai, Joe?» gli domandò mentre contemplava il suo corpo nudo.

«Trentaquattro.»

Allora, pensò lei, devi aver fatto la guerra. Non aveva notato difetti fisici evidenti; anzi, il suo corpo era ben fatto, magro, con gambe lunghe. Joe, vedendosi osservato, aggrottò la fronte e si voltò dall’altra parte. «Non posso guardarti?» gli chiese, domandandosi il perché. Tutta la notte insieme a lui, e adesso quella forma di pudore. «Siamo degli insetti?» disse lei. «Non possiamo sopportare l’uno la vista dell’altra alla luce del sole… dobbiamo infilarci nelle pareti?»

Con un brontolio infastidito, Joe si diresse verso il bagno in mutande e calzini, grattandosi il mento.

Questa è casa mia, pensò Juliana. Io ti permetto di stare qui e tu non vuoi che io ti guardi. E allora perché vuoi rimanere? Lo seguì nel bagno; lui aveva cominciato a far scorrere l’acqua calda nel lavandino per farsi la barba.

Sul suo braccio c’era un tatuaggio, una lettera C azzurra.

«Che significa?» gli chiese. «Tua moglie? Connie? Corinne?»

Joe, lavandosi la faccia, rispose: «Cairo.»

Che nome esotico, pensò lei, invidiosa. Poi si sentì avvampare. «Sono proprio una stupida,» si disse. Un italiano, trentaquattro anni, dalla parte nazista del mondo… aveva fatto la guerra, certo. Ma dalla parte dell’Asse. E aveva combattuto al Cairo; il tatuaggio era il loro vincolo, veterani tedeschi e italiani di quella campagna… la sconfitta dell’esercito inglese e australiano agli ordini del generale Gott, per mano di Rommel e del suo Afrika Korps.

Lasciò il bagno, tornò in soggiorno e cominciò a rifare il letto; le sue mani volavano.

Sulla sedia, in una pila ordinata, c’erano le cose di Joe, gli abiti, una piccola borsa, oggetti personali. Tra di essi notò una scatoletta rivestita di velluto, simile a un astuccio per occhiali; la prese e la aprì, guardando all’interno.

Certo che hai combattuto al Cairo, pensò, mentre fissava la Croce di Ferro di Seconda Classe, con il nome della città e la data — 10 giugno 1945 — incise sul coperchio. Non le conferivano a tutti, solo ai più valorosi. Chissà che cosa hai fatto… allora avevi appena diciassette anni.

Joe apparve sulla porta del bagno proprio mentre lei prendeva la medaglia dal suo astuccio di velluto; Juliana si rese conto della presenza dell’uomo e sobbalzò, sentendosi in colpa. Ma lui non sembrava arrabbiato.

«La stavo solo guardando,» disse Juliana. «Non ne avevo mai vista una, prima d’ora. Te l’ha appuntata Rommel in persona?»

«Le ha consegnate il generale Bayerlein. Rommel era già stato trasferito in Inghilterra, per dare il colpo di grazia.» La sua voce era calma. Ma con la mano aveva ricominciato quel gesto ripetitivo di sfregarsi la fronte, affondando le dita fra i capelli come a volerli pettinare, in quello che sembrava un tic nervoso cronico.

«Vuoi parlarmene?» gli chiese Juliana, mentre lui tornava in bagno.

Mentre si radeva e dopo, mentre faceva una lunga doccia bollente, Joe Cinnadella le raccontò qualcosa; ma niente di ciò che lei avrebbe voluto sentirsi dire. I due fratelli maggiori avevano fatto la campagna di Etiopia mentre lui, a tredici anni, era già membro di un’organizzazione giovanile fascista a Milano, la sua città natale. In seguito i suoi fratelli erano stati inviati a una postazione di artiglieria pesante, quella del maggiore Riccardo Pardi, e quando era iniziata la Seconda Guerra Mondiale, Joe era riuscito a unirsi a loro. Avevano combattuto agli ordini di Graziani. Erano equipaggiati malissimo, soprattutto in fatto di carri armati. Gli inglesi li avevano fatti fuori come conigli, ufficiali superiori compresi. Durante la battaglia, per impedire che si aprissero, avevano dovuto bloccare gli sportelli dei carri armati con i sacchetti di sabbia. Il maggiore Pardi, comunque, aveva chiesto di avere i proiettili scartati dell’artiglieria, li aveva fatti lucidare e ingrassare, e li aveva usati; la sua postazione era riuscita a fermare la grande, disperata avanzata dei carri armati del generale Wavell, nel 43.

«I tuoi fratelli sono ancora vivi?» gli domandò Juliana.

I suoi fratelli erano stati uccisi nel 44, strangolati con i cavi metallici dai commandos inglesi, il Gruppo Avanzato del Deserto, che operava alle spalle delle linee dell’Asse e che nelle ultime fasi della guerra, quando era ormai evidente che gli Alleati non potevano più vincere, era diventato piuttosto fanatico.

«Che cosa provi verso gli inglesi, adesso?» gli chiese, con voce incerta.

«Mi piacerebbe che venisse fatto all’Inghilterra quello che loro hanno fatto all’Africa,» rispose Joe con un tono di voce piatto.

«Ma sono passati… diciotto anni,» disse Juliana. «Io so che gli inglesi in particolare hanno fatto cose terribili, ma…»

«Si parla tanto di quello che i nazisti hanno fatto agli ebrei,» disse Joe. «Gli inglesi hanno fatto di peggio. Nella battaglia di Londra.» Tacque. «Quelle armi incendiarie, fosforo e petrolio; ho visto qualcuno dei soldati tedeschi, in seguito. Una barca dopo l’altra ridotta in cenere. Quei tubi sotto l’acqua… trasformavano il mare in fuoco. E sulle popolazioni civili, con quei bombardamenti di massa che secondo Churchill dovevano cambiare in extremis le sorti della guerra. Quegli attacchi da terroristi su Amburgo, Essen e…»

«Non parliamone più,» disse Juliana. Tornò in cucina e mise sul fuoco la pancetta; poi accese la radiolina Emerson di plastica bianca che Frank le aveva regalato per il suo compleanno. «Ti preparo qualcosa da mangiare.» Regolò la manopola della sintonia, cercando della musica leggera, rilassante.

«Guarda qui,» disse Joe. Si era seduto sul letto, in soggiorno, con la piccola borsa accanto a lui; l’aveva aperta e ne aveva tirato fuori un libro sgualcito e piegato che aveva l’aria di essere stato maneggiato molto spesso. Rivolse a Juliana un sorriso che era quasi una smorfia. «Vieni qui. Lo sai quello che dice qualcuno? Quest’uomo…» indicò il libro. «È molto buffo. Siediti.» La prese per le braccia e la avvicinò a sé. «Voglio che tu lo legga. Immagina se avessero vinto loro. Che cosa sarebbe successo? Non dobbiamo preoccuparci; quest’uomo ci ha già pensato per noi.» Aprì il libro e cominciò a sfogliare lentamente le pagine. «L’Impero Britannico controllerebbe tutta l’Europa. Tutto il Mediterraneo. Niente più Italia. E niente più Germania. I bobbies inglesi e quei buffi soldatini con il copricapo di pelliccia, e il re che estende il suo regno fino al Volga.»