Выбрать главу

«Se la Germania e il Giappone avessero perso la guerra,» disse Robert, «oggi gli ebrei sarebbero i padroni del mondo. Attraverso Mosca e Wall Street.»

I due giapponesi, marito e moglie, sembrarono rattrappirsi. Sembrarono svanire, raffreddarsi, discendere dentro se stessi. La stanza stessa divenne fredda. Robert Childan si sentì solo. Mangiava da solo, non più insieme a loro. E adesso che aveva fatto? Che cosa avevano creduto di capire? Quella loro stupida incapacità di comprendere fino in fondo una lingua straniera, il pensiero occidentale. Gli è sfuggito il concetto e così si sono offesi. Che tragedia, pensò, mentre continuava a mangiare. Eppure… che altro poteva fare?

Doveva ritrovare la precedente chiarezza, quella di un attimo prima, per ricavarne tutto quel che poteva. Fino a quel momento non si era reso pienamente conto di quanto fosse importante. Robert Childan non si sentiva male come prima, perché quel sogno insulso aveva cominciato a svanire dalla sua mente. Sono venuto qui con tanta trepidazione, si ricordò. Mentre salivo le scale ero in preda a uno stordimento romantico degno di un adolescente. Ma la realtà non può essere ignorata; bisogna crescere.

E qui c’è l’informazione giusta, proprio qui. Questa gente non è propriamente umana. Indossano abiti, ma sono come scimmie che fanno numeri da circo. Sono intelligenti e possono apprendere, ma questo è tutto.

E allora perché mi preoccupo tanto delle loro esigenze? Solo perché loro hanno vinto?

Questo incontro mi ha rivelato una grossa incrinatura nel mio carattere. Ma così va il mondo. Ho una patetica tendenza a… be’, diciamo, a scegliere invariabilmente il minore fra due mali. Come una mucca che vede il truogolo; parto al galoppo senza pensarci sopra.

Non ho fatto altro che adeguarmi ai movimenti esterni, perché è più sicuro; in fin dei conti sono loro che hanno vinto… e che comandano. E continuerò a farlo, credo. Perché mai dovrei rendermi infelice da solo? Leggono un libro americano e vogliono che glielo spieghi; sperano che io, uomo bianco, possa dare loro la risposta. E io ci provo. Ma in questo caso non posso, per quanto se lo avessi letto, certamente sarei in grado di farlo.

«Forse un giorno darò un’occhiata a quel libro, Signorina Cuorisolitari,» disse a Paul. «E allora sarò in grado di spiegarle il significato.»

Paul annuì impercettibilmente.

«Però, al momento, sono troppo preso dal mio lavoro,» aggiunse Robert. «Più avanti, forse… sono sicuro che non mi ci vorrà molto.»

«No,» mormorò Paul. «È un libro molto breve.» Sia lui che Betty avevano l’aria triste, pensò Robert Childan. Si domandò se anche loro avessero avvertito l’abisso insuperabile che li separava. Spero di sì, pensò. Se lo meritano. È una vergogna… che se lo trovino da soli, il significato di quel libro.

Adesso, mangiava con più gusto.

Per quella sera non vi furono altri motivi di tensione. Quando alle dieci lasciò l’appartamento dei Kasoura, Robert Childan provava ancora quel senso di sicurezza che lo aveva colto durante la cena.

Scese le scale del palazzo senza nessun vero interesse per i pochi giapponesi che, entrando e uscendo dai bagni comuni, potevano notarlo e osservarlo. Uscì sul marciapiede buio, poi chiamò un taxi a pedali di passaggio. Ben presto era in viaggio verso casa.

Mi sono sempre chiesto come sarebbe stato conoscere meglio certi clienti e intrattenere con loro dei rapporti al di fuori del lavoro. Niente male, dopotutto. E poi, pensò, questa esperienza potrà essermi utile nella mia attività.

È terapeutico incontrare questa gente che ti ha intimidito. E scoprire chi è veramente. Allora non ti senti più in soggezione.

Immerso nei suoi pensieri giunse finalmente nel suo quartiere e infine davanti alla porta di casa. Pagò il chink che guidava il taxi e salì le scale familiari del palazzo.

Là, nell’atrio, c’era un uomo che non conosceva. Un bianco che indossava un soprabito, seduto sul divano a leggere un giornale. Quando Robert Childan si fermò stupefatto sulla soglia, l’uomo depose il giornale, si alzò senza fretta e infilò la mano nel taschino. Ne estrasse un portafogli e glielo mostrò.

«Kempeitai.»

Era un pinoc. Un funzionario di Sacramento e della sua Polizia di Stato, insediata dalle autorità giapponesi di occupazione. Spaventoso!

«Lei è Robert Childan?»

«Sì, signore,» disse lui. Il cuore gli batteva forte.

«Recentemente,» disse il poliziotto, consultando un blocco di appunti che aveva preso da una borsa sul divano, «lei ha ricevuto la visita di un uomo, un bianco, che si è presentato come il rappresentante di un ufficiale della Marina Imperiale. Le successive indagini hanno rivelato che si trattava di una falsa identità. Non esiste nessun ufficiale, e nessuna nave.» Squadrò Childan.

«È esatto,» disse Childan.

«Abbiamo un rapporto,» continuò il poliziotto, «su un racket che esiste nell’area della Baia. Evidentemente questo individuo ne fa parte. Può descriverlo?»

«Piccolo, dalla pelle piuttosto scura,» cominciò Childan.

«Ebreo?»

«Si!» disse Childan, «adesso che ci ripenso. Sul momento non ci avevo fatto caso.»

«Ho qui una foto.» L’uomo della Kempeitai gliela porse.

«È lui,» disse Childan, che lo riconobbe al di là di ogni dubbio. Era un po’ spaventato dall’efficienza investigativa della Kempeitai. «Come avete fatto a trovarlo? Io non l’ho denunciato, ma mi sono rivolto al mio fornitore, Ray Calvin, e gli ho detto…»

Il poliziotto lo interruppe con un gesto della mano. «Ho un documento da farle firmare, tutto qui. Lei non dovrà comparire in tribunale; questa è una formalità legale che la libera da ogni coinvolgimento futuro.» Porse a Childan il documento, poi una penna. «Qui lei afferma che è stato avvicinato da quest’uomo, il quale ha tentato di ingannarla spacciandosi per un’altra persona e via dicendo. Legga il documento.» Il poliziotto si arrotolò il polsino della camicia e diede un’occhiata all’orologio mentre Robert Childan leggeva il foglio. «È corretto, sostanzialmente?»

Lo era… sostanzialmente. Robert Childan non aveva il tempo di studiare il documento con attenzione e comunque era piuttosto stordito per gli avvenimenti della giornata. Ma sapeva che quell’uomo si era spacciato per un altro, e che c’era di mezzo un racket; e come aveva detto l’uomo della Kempeitai, quel tizio era un ebreo. Robert Childan lesse il nome scritto sotto la fotografia. Frank Frink. Nato Frank Fink. Sì, era senza dubbio un ebreo. Se ne sarebbe accorto chiunque, con un cognome come Fink. E così se lo era cambiato.

Childan firmò il documento.

«Grazie,» disse il poliziotto. Raccolse le sue cose, si sfiorò la punta del cappello, augurò buonanotte a Childan e se ne andò. L’intera faccenda era durata solo pochi secondi.

Penso che lo abbiano preso, si disse Childan. Quali che fossero le sue intenzioni.

Un gran sollievo. Lavorano in fretta, per fortuna.

Viviamo in una società legale e ordinata, dove gli ebrei non possono perpetrare i loro imbrogli a danno degli innocenti. Siamo protetti.

Non capisco come ho fatto a non riconoscere le sue caratteristiche razziali, quando l’ho visto. Evidentemente è facile ingannarmi.

È solo che io non sono capace di ingannare nessuno, decise, e questo mi rende indifeso. Senza la legge sarei alla loro mercé. Avrebbe potuto farmi credere qualsiasi cosa. È una forma di ipnosi. Possono controllare un’intera società.