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Devo trovare un accordo con loro qui, si rese conto. Lista nera o no; per me è la fine, se lascio il territorio controllato dai giapponesi e mi faccio vedere nel Sud o in Europa… in qualsiasi parte del Reich.

Dovrò scendere a patti con il vecchio Wyndham-Matson.

Seduto sul letto, con una tazza di tè tiepido, Frink tirò fuori la sua copia dell’I Ching. Estrasse i quarantanove steli di millefoglie dalla custodia di pelle e si concentrò finché non si sentì in grado di controllare adeguatamente i propri pensieri e non ebbe elaborato le domande.

Disse ad alta voce: «Come devo rivolgermi a Wyndham-Matson in modo da raggiungere con lui un accordo soddisfacente?» Scrisse la domanda sul blocco di carta, poi cominciò a muovere gli steli di millefoglie da una mano all’altra finché non ottenne la prima linea, l’inizio. Un otto. Questo già eliminava la metà dei sessantaquattro esagrammi. Divise gli steli e ottenne la seconda linea. Ben presto, esperto com’era, ebbe tutte e sei le linee; l’esagramma era davanti a lui e non ebbe bisogno di consultare il libro. Era in grado di riconoscerlo come l’Esagramma Quindici. Ch’ien. La Modestia. Ah. Coloro che sono in basso verranno elevati, coloro che sono in alto abbassati, le famiglie potenti umiliate; non fu necessario consultare il testo… lo conosceva a memoria. Un buon auspicio. L’oracolo gli stava fornendo un responso favorevole.

Eppure provò una certa delusione. C’era qualcosa di fatuo nell’Esagramma Quindici. Troppo prevedibile. Doveva per forza essere modesto. Ma forse c’era un’idea, dietro tutto ciò. In fin dei conti lui non aveva alcun potere sul vecchio W-M. Non poteva imporgli di riassumerlo. Tutto ciò che poteva fare era adottare il punto di vista dell’Esagramma Quindici; era quel momento particolare in cui ci si doveva limitare a far domande, sperare e aspettare fiduciosi. Al momento giusto il cielo lo avrebbe risollevato al suo vecchio lavoro o forse anche a qualcosa di meglio.

Non c’erano linee da leggere, nessun nove e nessun sei. Era un esagramma statico. Perciò aveva finito. Non poteva diventare un secondo esagramma.

Ma allora, ecco una nuova domanda. Si preparò e disse a voce alta: «Rivedrò Juliana?»

Era sua moglie, anzi la sua ex moglie. Juliana aveva divorziato da lui un anno prima, e non la vedeva da mesi; anzi non sapeva nemmeno dove abitasse. Evidentemente aveva lasciato San Francisco, forse gli stessi S.A.P. Neanche i suoi migliori amici avevano sue notizie, o forse non volevano riferirgliele.

Maneggiò laboriosamente gli steli di millefoglie, con gli occhi fissi sul punteggio. Quante volte aveva fatto domande su Juliana, in un modo o nell’altro? Ecco l’esagramma, formato dal passivo movimento casuale dei bastoncini. Casuale, eppure radicato nel momento in cui lui viveva, in cui la sua vita era legata a tante altre vite e particelle dell’universo. Il necessario esagramma che tratteggiava, nel suo schema di linee intere e spezzate, la situazione. Lui, Juliana, la fabbrica di Gough Street, le Missioni Commerciali che dettavano legge, l’esplorazione dei pianeti, i miliardi di mucchietti di residui chimici, in Africa, che non erano nemmeno più cadaveri, le aspirazioni di migliaia di persone intorno a lui, nelle squallide conigliere di San Francisco, le creature folli di Berlino con i loro volti impassibili e i progetti maniacali… tutto collegato in quel momento nel quale si gettavano gli steli di millefoglie per selezionare la saggezza appropriata in un libro iniziato nel trentesimo secolo prima di Cristo. Un libro creato dai saggi della Cina durante un periodo di cinquemila anni, vagliato e perfezionato; quella cosmologia — e quella scienza — superba, codificata prima ancora che l’Europa avesse imparato a fare le divisioni.

L’esagramma. Il suo cuore ebbe un sussulto. Quarantaquattro. Kou. Il Farsi incontro. Il suo giudizio raggelante. La ragazza è potente. Non bisogna sposare una ragazza del genere. Era venuto fuori di nuovo, in relazione a Juliana.

Vabbé, pensò, rilassandosi. Dunque era la donna sbagliata per me; lo so. Non è questo che ho chiesto. Perché l’oracolo me lo deve ricordare? Un brutto destino, il mio, quello di averla incontrata e di essermi innamorato — di essere ancora innamorato — di lei.

Juliana… la donna più bella che avesse mai sposato. Ciglia e capelli nerissimi, tracce consistenti di sangue spagnolo distribuito come puro colore, perfino nelle labbra. Un’andatura elastica, silenziosa; ai piedi scarpe sportive, un ricordo del liceo. In realtà ogni suo capo d’abbigliamento aveva un aspetto sciupato, e dava la netta impressione di essere vecchio e lavato più volte. Tutti e due erano stati così poveri che, malgrado la sua bella figura, Juliana era stata costretta a indossare una camicetta di cotone, una giacca di tela con chiusura lampo, una gonna marrone di tweed e calze fino al ginocchio, e odiava sia lui che quell’abbigliamento perché, diceva, la faceva sembrare come una donna che giocasse a tennis o (peggio ancora) che andasse a raccogliere funghi nei boschi.

Ma al di là di tutto, era stato inizialmente attratto dalla sua espressione singolare; senza una ragione particolare, Juliana accoglieva gli estranei con un portentoso, imbarazzante sorriso da Monna Lisa che li lasciava in sospeso tra reazioni contrastanti, indecisi se salutare o no. E lei era così attraente che il più delle volte decidevano di salutare, mentre Juliana si dileguava. Inizialmente lui aveva pensato che si trattasse di un semplice problema visivo, ma alla fine aveva deciso che tradiva invece una profonda, intima stupidità, altrimenti ben nascosta. E così, in conclusione, quel suo modo sfarfallante di salutare gli estranei gli era venuto a noia, così come quel suo modo di andare e venire senza rumore, senza apparente movimento, del tipo devo-fare-qualcosa-di-misterioso. Ma anche allora, verso la fine, lui non l’aveva mai vista se non come una invenzione diretta, letterale di Dio, calata nella sua vita per motivi che non avrebbe mai conosciuto. E per quella ragione — per una specie di intuizione religiosa, o per una grande fede in lei — non riusciva a darsi pace per averla perduta.

Adesso sembrava così vicina… come se fossero ancora insieme. Quello spirito, ancora vivo e presente nella sua vita, che frugava nella sua stanza in cerca di… di qualunque cosa Juliana stesse cercando. E dentro la sua mente, ogni volta che prendeva i volumi dell’oracolo.

Seduto sul letto, circondato da un desolato disordine, mentre si preparava per uscire e cominciare la sua giornata, Frank Frink si domandò chi mai in quello stesso momento, nella vasta, complessa città di San Francisco, stesse consultando l’oracolo. E se tutti ottenevano il suo stesso triste responso. E il tenore del Momento era negativo per loro come per lui?

CAPITOLO SECONDO

Il signor Nobosuke Tagomi stava consultando il divino Quinto Libro della Saggezza Confuciana, l’oracolo taoista chiamato da secoli I Ching o Libro dei Mutamenti. Quella stessa mattina, verso mezzogiorno, aveva cominciato a provare qualche apprensione per il suo appuntamento con il signor Childan, che era previsto un paio d’ore dopo.

Il gruppo di uffici al ventesimo piano del Nippon Times Building in Taylor Street dominava la Baia. Dalla finestra poteva osservare le navi che entravano, passando sotto il Golden Gate. Proprio in quel momento si vedeva un mercantile al di là di Alcatraz, ma il signor Tagomi non se ne curò. Andò verso la parete, sciolse la cordicella e abbassò la tapparella di bambù, coprendo la finestra. Il vasto ufficio centrale divenne più buio; adesso non doveva più socchiudere gli occhi per ripararsi dal riverbero. Adesso poteva riflettere con maggiore lucidità.