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«Ritorni domani pomeriggio,» disse il giapponese. Si alzò, e Baynes fece altrettanto. «Buongiorno.»

«Buongiorno,» disse Baynes. Lasciò il camerino, riappese i pantaloni sulla rastrelliera e lasciò i Grandi Magazzini Fuga.

Non ci è voluto molto, rifletté, mentre si avviava lungo il marciapiede affollato del centro insieme agli altri pedoni. Potrà veramente fornirmi quell’informazione, per domani? Riuscirà a contattare Berlino, a trasmettere la mia richiesta in codice, a decodificare la risposta… tutta la procedura?

Sembra di sì.

Adesso vorrei averlo contattato prima, quell’agente. Mi sarei risparmiato un bel po’ di preoccupazioni e di tensione. Ed evidentemente non c’erano poi quei grandi rischi; sembrava che tutto fosse andato liscio. C’erano voluti appena cinque o sei minuti.

Baynes passeggiò senza meta, osservando le vetrine dei negozi. Adesso si sentiva molto meglio. Dopo un po’ si ritrovò a guardare le fotografie pubblicitarie di cabaret di infimo ordine, immagini sporche, imbrattate dalle mosche, di donne bianche nude con i seni cadenti come palloni da pallavolo sgonfi. Quella vista lo divertì e lui si trattenne, mentre la gente gli passava accanto nell’andirivieni frenetico di Market Street.

Almeno aveva fatto qualcosa, finalmente.

Che sollievo!

Comodamente appoggiata allo sportello dell’auto, Juliana leggeva. Accanto a lei, con il gomito fuori dal finestrino, Joe guidava con una mano appena posata sul volante, e la sigaretta che gli pendeva dal labbro inferiore; era un ottimo guidatore, e già si erano allontanati di molto da Canon City.

L’autoradio trasmetteva musica popolare sdolcinata, da birreria all’aperto: un’orchestra di fisarmoniche eseguiva quella che doveva essere una polka o una schottische. Non era mai riuscita a distinguerle l’una dall’altra.

«Kitsch,» disse Joe quando la musica finì. «Senti, io so un sacco di cose in fatto di musica; te lo dico io, chi è stato un grande direttore. Forse tu non te lo ricordi. Arturo Toscanini.»

«No,» disse lei, sempre leggendo.

«Era italiano. Ma dopo la guerra i nazisti non gli hanno più permesso di dirigere, per le sue idee politiche. Ormai è morto. Non mi piace quel von Karajan, direttore stabile della New York Philharmonic. Ci costringevano ad andare ai suoi concerti, quando eravamo fuori servizio. Chi mi piace, visto che sono un oriundo italiano… puoi indovinarlo.» Le rivolse un’occhiata. «Ti piace quel libro?» le chiese.

«È affascinante.»

«Sono Verdi e Puccini. A New York ti propinano solo quella musica fragorosa e magniloquente di Wagner e Orff, e tutte le settimane dobbiamo andare a uno di quei noiosissimi spettacoli drammatici del Partito Nazista degli Stati Uniti, al Madison Square Garden, con tanto di bandiere e tamburi, trombe e fiaccole accese. La storia delle tribù gotiche o altre stronzate educative, cantate invece che raccontate, così possono definirla “arte”. Hai mai visto New York prima della guerra?»

«Sì,» rispose lei, cercando di leggere.

«Non c’erano dei teatri fantastici, a quei tempi? Così mi hanno detto. Adesso è come l’industria del cinema; tutto monopolizzato da Berlino. Nei tredici anni che ho vissuto a New York non c’è mai stato un solo musical o una sola commedia degna di questo nome, solo quei…»

«Lasciami leggere,» disse Juliana.

«E lo stesso è anche con i libri,» continuò imperterrito Joe. «È tutto monopolio di Monaco. A New York si limitano a stampare; solo grandi rotative… ma prima della guerra, New York era il cuore dell’editoria mondiale, o almeno così dicono.»

Lei si tappò le orecchie con le dita per non sentirlo e si concentrò sul libro aperto che teneva sulle ginocchia. Era arrivata al capitolo de La Cavalletta in cui si parlava della favolosa televisione, e la cosa la affascinava; specialmente la parte che descriveva i piccoli televisori a buon mercato destinati ai popoli africani e asiatici.

solo la tecnologia yankee e il sistema di produzione di massa — Detroit, Chicago, Cleveland, che magici nomi! — potevano compiere il miracolo, inviare quella incessante fiumana, quasi involontariamente nobile, di scatole di montaggio per apparecchi televisivi da un dollaro (il dollaro cinese, quello commerciale) in ogni più sperduto villaggio dell’Oriente. E una volta assemblata la scatola di montaggio da qualche giovanotto del villaggio, smunto e delirante, che aspettava solo quell’occasione offerta dal generoso popolo americano, quel minuscolo apparecchio metallico, con la sua batteria incorporata non più grossa di una pallina di vetro, cominciava a ricevere. E che cosa riceveva? Accucciati davanti allo schermo, i giovani del villaggio, e spesso anche gli anziani, vedevano delle parole. Istruzioni. Come leggere, per prima cosa. Poi il resto. Come scavare un pozzo più profondo. Come tracciare un solco più infossato con l’aratro. Come purificare l’acqua, come guarire gli ammalati. In alto, il satellite artificiale americano percorreva la sua orbita, distribuendo il segnale e portandolo dovunque… a tutti coloro che aspettavano, le avide masse dell’Est.

«Te lo leggi tutto?» chiese Joe. «O salti un po’ qua e là?»

«È splendido,» disse lei. «Dice che mandiamo cibo e informazioni in tutta l’Asia, a milioni e milioni di persone.»

«Benessere su scala mondiale,» disse Joe.

«Sì. Il New Deal sotto Tugwell; elevano il livello delle masse… ascolta.» Lesse a voce alta:

…che cosa era stata la Cina? Un’entità bisognosa, mescolata, che guardava con bramosia verso l’Occidente, il suo grande presidente democratico, Chiang Kai-shek, che aveva guidato il popolo cinese durante gli anni della guerra, e che lo guidava ancora negli anni della pace, il Decennio della Ricostruzione. Ma per la Cina non si trattava di ricostruire, perché quella terra piatta e quasi innaturalmente estesa non era mai stata costruita, e sonnecchiava ancora nel suo sogno antico. Un risveglio; sì, l’entità, il gigante, doveva finalmente partecipare alla piena conoscenza, doveva ridestarsi al mondo moderno con i suoi aerei a reazione e l’energia atomica, le autostrade e le fabbriche e le medicine. E da dove sarebbe giunto lo scoppio del tuono che avrebbe ridestato il gigante? Chiang lo sapeva, anche durante la lotta per sconfiggere il Giappone. Sarebbe giunto dagli Stati Uniti d’America. E già nel 1950 tecnici, ingegneri, insegnanti, medici, agronomi americani sciamavano come una nuova forma di vita per ogni provincia, per ogni…

Joe la interruppe e disse: «Lo sai quello che ha fatto, no? Ha preso il meglio dal nazismo, la parte socialista, l’Organizzazione Todt e i vantaggi economici che abbiamo ricavato attraverso Speer, e a chi ne ha attribuito il merito? Al New Deal. E ha lasciato il peggio, le SS, lo sterminio e la segregazione razziale. È un’utopia! Tu credi che se gli Alleati avessero vinto, il New Deal sarebbe riuscito a rianimare l’economia e ad apportare quei miglioramenti di tipo socialista, come dice lui? Cavolo, no; lui parla di una forma di sindacalismo statale, di uno stato corporativo, simile a quello che c’era da noi sotto il Duce. Lui dice, voi avreste avuto tutto il meglio e niente di…»

«Lasciami leggere,» disse lei, con veemenza.

Lui si strinse nelle spalle. Ma smise di parlare. Juliana riprese a leggere, stavolta solo per se stessa.

…e quel mercato, formato da una massa sterminata di cinesi, mise in movimento le fabbriche di Detroit e di Chicago; non era possibile sfamare quella bocca enorme, e nemmeno cento anni sarebbero bastati per dare a quella gente tutti i camion, o i mattoni, i lingotti d’acciaio, i vestiti, le macchine da scrìvere, i piselli in scatola, gli orologi, le radio, le gocce per il naso di cui avevano bisogno. L’operaio americano, verso il 1960, aveva il più alto livello di vita di tutto il mondo, e tutto per merito di quella che veniva educatamente definita “la clausola della nazione favorita” in ogni transazione commerciale con l’Oriente. Gli Stati Uniti non occupavano più il Giappone, e non avevano mai occupato la Cina; eppure non si poteva negare un fatto: Canton, Tokyo e Shangai non compravano dagli inglesi, compravano dagli americani. E ad ogni vendita, l’operaio di Baltimora o di Los Angeles diventava un po’ più ricco.