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E in fin dei conti, posso sempre tenere in negozio gli originali. Per gli amatori, per esempio gli amici di Paul.

«Lei sta lottando con se stesso,» osservò Paul. «E non c’è dubbio che proprio in situazioni come questa si desidera essere soli.» Si era avviato verso la porta.

«Ho già deciso.»

Gli occhi di Paul ebbero un lampo.

Inchinandosi, Childan disse: «Seguirò il suo consiglio. Adesso andrò a far visita all’importatore.» Sollevò il foglio di carta.

Stranamente, Paul non sembrò contento; si limitò a grugnire qualcosa e tornò alla sua scrivania. Nascondono le loro emozioni fino all’ultimo, rifletté Childan.

«La ringrazio molto per il suo aiuto,» disse Childan mentre si preparava ad andare via. «Se possibile, un giorno le ricambierò il favore. Non me ne dimenticherò.»

Ma il giovane giapponese ancora non mostrava nessuna reazione. È verissimo, pensò Childan, quello che dicevamo di loro: sono imperscrutabili.

Mentre lo accompagnava alla porta, Paul sembrava immerso nei suoi pensieri. All’improvviso sbottò: «Questo pezzo è stato fatto a mano da qualche artigiano americano, non è vero? Con il lavoro del suo corpo.»

«Sì, dal disegno iniziale fino alla levigatura conclusiva.»

«Signore! Pensa che questo artigiano accetterà? Immagino che sognasse qualcosa di diverso per il suo lavoro.»

«Direi che si può convincere,» replicò Childan; per lui il problema era di importanza trascurabile.

«Sì,» disse Paul. «Suppongo di sì.»

Qualcosa nel suo tono attirò subito l’attenzione di Childan. C’era un’enfasi particolare, indefinita. E poi Childan comprese. Senza dubbio aveva infranto l’ambiguità… lui vedeva.

Ma certo. L’intera faccenda era solo la crudele negazione degli sforzi americani che prendeva corpo davanti ai suoi occhi. Cinismo ma, Dio non lo volesse, aveva inghiottito amo, lenza e piombino. Mi ha portato ad accettare, passo dopo passo, mi ha condotto lungo il sentiero del giardino fino a questa conclusione: i prodotti fatti dagli americani non servono a nulla se non a fungere da modelli per amuleti portafortuna da quattro soldi.

E così che governavano i giapponesi, non con la crudeltà ma con la sottigliezza, con l’ingegno, con l’astuzia di secoli.

Cristo! In confronto a loro siamo dei barbari, si rese conto Childan. Siamo stupidi e ingenui, di fronte a questo modo di ragionare così lucido e spietato. Paul non ha detto, non mi ha detto, che la nostra arte è inutile; ha fatto in modo che lo dicessi io per lui. E, ironia finale, si è dispiaciuto per la mia affermazione. Un debole, educato gesto di rammarico quando ha sentito la verità detta da me.

Mi ha fatto a pezzi, per poco non si lasciò scappare Childan… fortunatamente, però, riuscì a fare in modo che rimanesse solo un pensiero; come prima, lo conservò nel suo mondo interiore, segreto e appartato, per lui solo. Ha umiliato me e la mia razza. E io non posso farci niente. Non posso vendicarmi di tutto ciò; noi siamo sconfitti e le nostre sconfitte sono come questa, così impalpabili, così delicate che riusciamo appena a rendercene conto. In effetti, dobbiamo fare un bel salto evolutivo, per capire ciò che è veramente successo.

Quale altra prova occorre, per stabilire che i giapponesi sono i più adatti a governare? Gli venne voglia di ridere, quasi con un senso di apprezzamento. , pensò, le cose stanno così, come quando ti raccontano un bell’aneddoto. Devo ricordarmelo, assaporarlo in seguito, magari raccontarlo a qualcuno. Ma a chi? Ecco il problema. È un fatto troppo personale per raccontarlo.

In un angolo dell’ufficio di Paul c’era un cestino per la carta. Là dentro! si disse Robert Childan, insieme a questa massa informe, a questo gioiello pieno di wu.

Posso farlo? Gettarlo via? Porre fine alla situazione sotto gli occhi di Paul?

Non posso nemmeno gettarlo via, si rese conto mentre stringeva la spilla. Non devo… se ho intenzione di incontrare ancora altri giapponesi come te.

Accidenti a loro, non riesco a liberarmi dalla loro influenza, non posso nemmeno cedere a un impulso. Ogni spontaneità distrutta… Paul continuava a fissarlo senza dire niente; non ne aveva bisogno, la sua stessa presenza era più che sufficiente. Ha intrappolato la mia coscienza, ha teso un filo invisibile da questo oggetto senza forma che ho in mano su su fino alla mia anima.

Credo di avere vissuto in mezzo a loro troppo a lungo. Adesso è troppo tardi per ritrarsi, per tornare insieme ai bianchi, al modo di vivere dei bianchi.

«Paul…» disse Robert Childan, accorgendosi che la voce gli usciva quasi chioccia; senza controllo, senza modulazione.

«Sì, Robert.»

«Paul, io… mi sento… umiliato.»

La stanza prese a vorticare.

«Perché mai, Robert?» Un tono di partecipazione, ma distaccata. Priva di un reale interesse.

«Paul. Un momento.» Toccò il gioiello; era diventato viscido per il sudore. «Io… sono orgoglioso di questo prodotto. Non posso prendere in considerazione l’idea di trasformarlo in un volgarissimo amuleto portafortuna. Non lo accetto.»

Ancora una volta non riuscì a decifrare la reazione del giovane giapponese; capì solo che lo ascoltava, che era lì, presente e attento.

«Grazie comunque,» disse Robert Childan.

Paul fece un inchino.

«Gli uomini che hanno creato questa spilla,» disse Childan, «sono artisti americani, orgogliosi di esserlo. Me compreso. Proporre di farne un amuleto da quattro soldi significa insultarci, e io chiedo le sue scuse.»

Un silenzio incredibilmente prolungato.

Paul lo osservò. Un sopracciglio si sollevò appena, le labbra si piegarono in una smorfia. Un sorriso?

«Le esigo,» disse Childan. Era tutto; non poteva andare oltre. Si limitò ad aspettare.

Non successe nulla.

Per favore, pensò. Aiutami.

Paul disse: «Perdoni la mia arrogante imposizione.» Gli porse la mano.

«D’accordo,» disse Robert Childan.

Si strinsero la mano.

Il cuore di Childan si riempì di serenità. Capì di aver affrontato e superato la prova. Adesso è tutto finito. La grazia di Dio; si è rivelata nel momento più giusto per me. In un’altra occasione… sarebbe andata in modo diverso. Potrei riprovarci ancora, sfidare la mia fortuna? Probabilmente no.

Provò un senso di malinconia. Un breve istante, come se fosse emerso in superficie e potesse spaziare liberamente con lo sguardo.

La vita è breve, pensò. L’arte, o qualcosa che non è la vita, è lunga, si estende all’infinito, come un verme di cemento. Piatta, bianca, non consumata da ciò che le passa sopra o attraverso. Eccomi qui. Ma adesso non più. Prese la scatoletta, e si infilò la creazione dell’oreficeria Edfrank nella tasca della giacca.

CAPITOLO DODICESIMO

«Signor Tagomi, ecco il signor Yatabe,» annunciò Ramsey. Si ritrasse in un angolo dell’ufficio, e il vecchio signore alto e magro si fece avanti.

Il signor Tagomi gli porse la mano e disse: «Sono lieto di fare la sua conoscenza, signore.» La vecchia mano, fragile e leggera, scivolò nella sua; la strìnse senza troppa forza e la lasciò subito. Niente di rotto, spero, pensò. Esaminò i lineamenti dell’anziano gentiluomo, e si sentì soddisfatto. C’era in lui uno spirito forte, coerente. Un’aria viva, tutt’altro che annebbiata. Certamente un lucido rappresentante di tutte le più antiche e solide tradizioni. La qualità migliore, che solo i vecchi potevano esprimere… e poi si rese conto che si trovava di fronte al generale Tedeki, ex Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Imperiale.