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«Non farlo troppo lucido,» gli disse Ed McCarthy. «Basta che smussi i punti sporgenti; puoi lasciar perdere del tutto quelli concavi.»

Frank Frink grugnì.

«L’argento non troppo lucidato ha un mercato migliore,» disse Ed. «Gli oggetti d’argento dovrebbero avere quell’aspetto antico.»

Mercato, pensò Frink.

Non avevano venduto niente. A parte il materiale lasciato in deposito alla Manufatti Artistici Americani, nessuno aveva preso nulla, e in tutto avevano già visitato cinque negozi.

Non stiamo guadagnando niente, si disse Frink. Non facciamo che fabbricare un gioiello dopo l’altro, che continuano ad ammucchiarsi intorno a noi.

La vite posteriore dell’orecchino si impigliò nella ruota; il pezzo schizzò dalla mano di Frink, andò a sbattere contro la maschera protettiva per levigare e cadde a terra. Spense il motore.

«Non lasciarlo perdere, quel pezzo,» disse McCarthy, impegnato con il saldatore.

«Cristo, è grande come un pisello. Non c’è verso di tenerlo.»

«Be’, comunque raccoglilo.»

Al diavolo tutta questa storia, pensò Frink.

«Cosa succede?» gli domandò McCarthy, vedendo che non accennava a raccogliere l’orecchino.

«Stiamo buttando via i soldi per niente.»

«Non possiamo vendere ciò che non abbiamo fabbricato.»

«Non possiamo vendere un bel niente,» disse Frink. «Fabbricato o no.»

«Cinque negozi. Ce ne sono degli altri.»

«Ma l’andazzo è quello,» disse Frink. «Basta per capirlo.»

«Non scherzare.»

«Non sto scherzando,» disse Frink.

«E allora che cosa vuoi dire?»

«Voglio dire che è ora di mettersi a cercare qualcuno che ci ricompri il metallo a peso.»

«Va bene,» disse McCarthy. «Allora molla tutto.»

«Certo che mollo tutto.»

«Andrò avanti da solo.» McCarthy riaccese il saldatore.

«Come faremo a dividere il materiale?»

«Non lo so, ma troveremo un modo.»

«Compra la mia parte,» disse Frink.

«Cavolo, no.»

Frink fece dei calcoli. «Dammi seicento dollari.»

«No, ti prendi la metà di ogni cosa.»

«Anche mezzo motore?»

Rimasero entrambi in silenzio.

«Altri tre negozi,» disse McCarthy. «Poi ne riparleremo.»

Abbassò la maschera e cominciò a sagomare un pezzo di lingotto di ottone in forma di braccialetto. Frank Frink si allontanò dal banco. Rintracciò l’orecchino a forma di chiocciola e lo rimise nella scatola dei pezzi incompleti. «Vado fuori a fumare una sigaretta,» disse, e attraversò il laboratorio diretto verso le scale.

Un momento dopo era all’esterno, sul marciapiede, con una T’ien-lai fra le dita.

È finita, si disse. Non ho bisogno dell’oracolo per saperlo; riconosco che Momento è questo. Lo sento dall’odore. Sconfitta.

Ed è difficile spiegare il perché. Magari, in linea teorica, potremmo anche andare avanti. Negozio dopo negozio, altre città. Ma… c’è qualcosa che non va. E tutti i nostri sforzi e il nostro ingegno non potranno cambiare le cose.

Voglio sapere perché, pensò.

Non lo saprò mai.

Che cosa avremmo potuto fare? Che cos’altro, al posto di questo?

Abbiamo scelto il momento sbagliato. Un momento non favorevole al Tao. Siamo andati controcorrente, nella direzione sbagliata. E adesso… dissoluzione. Decadimento.

Lo yin ci tiene in pugno. La luce ci ha voltato le spalle, è andata altrove.

Possiamo soltanto rassegnarci.

Mentre se ne stava lì sotto la grondaia del palazzo, tirando rapide boccate dalla sigaretta alla marijuana e guardando distrattamente il traffico, un uomo bianco di mezza età, dall’aspetto comune, gli si fece incontro.

«Il signor Frink? Frank Frink?»

«In persona,» disse Frink.

L’uomo tirò fuori un documento ripiegato e una tessera di identificazione. «Sono del Dipartimento di Polizia di San Francisco. Ho un mandato di arresto per lei.» Aveva già afferrato Frink per un braccio; l’arresto era già in atto.

«Con quale accusa?» domandò Frink.

«Truffa. Ai danni del signor Childan, della Manufatti Artistici Americani.» Il poliziotto sospinse Frink a forza lungo il marciapiede; apparve un altro poliziotto in borghese, e Frink si ritrovò stretto fra i due agenti. Lo trascinarono verso una Toyopet parcheggiata, priva di contrassegni.

È questo che il tempo ci richiede, pensò Frink mentre veniva caricato a bordo in mezzo ai due poliziotti. Lo sportello si richiuse rumorosamente; la vettura, guidata da un terzo agente, quest’ultimo in divisa, si immise rapidamente nel traffico. Questi sono i figli di puttana ai quali dobbiamo sottometterci.

«Hai un avvocato?» gli chiese uno dei poliziotti.

«No,» rispose lui.

«Alla stazione ti daranno un elenco di nomi.»

«Grazie,» disse Frink.

«Cosa ne hai fatto del denaro?» gli chiese in seguito uno dei poliziotti, mentre parcheggiavano nell’autorimessa della stazione di polizia di Kearny Street.

«L’ho speso,» rispose Frink.

«Tutto?»

Lui non rispose.

Uno degli agenti scrollò la testa e rise.

Mentre scendevano dalla macchina, uno di loro chiese a Frink: «Il tuo vero nome è Fink?»

Frink provò un senso di terrore.

«Fink,» ripeté il poliziotto. «Sei un ebreo.» Gli mostrò una grossa cartella grigia. «Un profugo dall’Europa.»

«Sono nato a New York,» disse Frank Frink.

«Sei fuggito dai nazisti,» disse il poliziotto. «Lo sai che cosa significa?»

Frank Frink si liberò con uno strattone e corse via attraverso il garage. I tre poliziotti gridarono, e giunto alla porta si ritrovò di fronte una vettura della polizia con uomini armati in uniforme che gli bloccavano il passaggio. I poliziotti gli sorrisero, e uno di loro, che brandiva una pistola, scese dalla macchina e gli mise le manette al polso.

Tirandolo per il polso — il metallo sottile gli penetrava nella carne, fino all’osso — il poliziotto lo riportò indietro.

«In Germania,» disse uno dei poliziotti, tenendolo d’occhio.

«Io sono americano,» disse Frank Frink.

«Sei un ebreo,» ribatté il poliziotto.

Mentre lo portavano di sopra, uno degli agenti disse: «Verrà registrato qui?»

«No,» rispose un altro. «Sarà tenuto a disposizione del console tedesco. Vogliono processarlo secondo la legge tedesca.»

Non c’era nessun elenco di avvocati.

Per venti minuti il signor Tagomi era rimasto immobile alla sua scrivania, tenendo il revolver puntato contro la porta, mentre il signor Baynes passeggiava per l’ufficio. Il vecchio generale, dopo averci pensato un po’, aveva preso il telefono e aveva chiamato l’ambasciata giapponese a San Francisco. Tuttavia non era riuscito a mettersi in contatto con il barone Kaelemakule; l’ambasciatore, gli aveva detto un impiegato, era fuori città.

Adesso il generale Tedeki stava per fare una telefonata intercontinentale a Tokyo.

«Consulterò il Consiglio di Guerra,» spiegò al signor Baynes. «Si metteranno in contatto con le forze militari imperiali di stanza qui vicino.» Non sembrava affatto turbato.

Perciò entro poche ore ci libereranno, si disse il signor Tagomi. Magari arriveranno i marines giapponesi di una portaerei, armati con fucili mitragliatori e mortai.