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Servirsi dei canali ufficiali è molto utile in termini di esito finale… ma c’è pochissimo tempo. Proprio sotto di noi, quei delinquenti in camicia nera sono impegnatissimi a far fuori impiegati e segretarie.

Comunque, c’era ben poco che lui potesse ancora fare.

«Mi chiedo se sia il caso di provare a contattare il console tedesco,» disse Baynes.

Il signor Tagomi si vide già nell’atto di convocare la signorina Ephreikian con il suo registratore, per dettarle il testo di una protesta urgente a Herr H. Reiss.

«Posso chiamare Herr Reiss,» disse il signor Tagomi. «Su un’altra linea.»

«Lo faccia, la prego,» disse Baynes.

Sempre stringendo il suo raro esemplare di Colt 44, il signor Tagomi premette un pulsante sulla scrivania. Attivò così una linea telefonica che non figurava sull’elenco, installata appositamente per comunicazioni riservate.

Compose il numero del consolato tedesco.

«Buongiorno. Chi parla?» La voce brusca e accentata di un funzionario. Senza dubbio un subalterno.

«Sua Eccellenza Herr Reiss, prego,» disse il signor Tagomi. «Urgente. Qui è il signor Tagomi, capo della Missione Commerciale Imperiale.» Usò il suo tono deciso, quello di chi ha faccende importanti da discutere.

«Sì, signore. Un attimo, prego.» Poi, una lunga attesa. Dal telefono non proveniva alcun suono, nemmeno qualche ticchettio. Sarà semplicemente rimasto lì con il telefono in mano, decise il signor Tagomi. Perde tempo, secondo il tipico sistema nordico.

Al generale Tedeki, che aspettava all’altro telefono, e al signor Baynes, che passeggiava nervosamente, disse: «Naturalmente mi dirà che non c’è.»

Alla fine si udì nuovamente la voce del funzionario. «Mi scusi se l’ho fatta attendere, signor Tagomi.»

«Prego.»

«Il console è in riunione. Comunque…»

Il signor Tagomi riattaccò.

«Una perdita di tempo, come minimo,» disse, provando un senso di frustrazione. Chi altri posso chiamare? La Tokkoka è stata già informata, e così anche le unità della Polizia Militare di stanza al porto; è inutile richiamarli. Telefonare direttamente a Berlino? Al Cancelliere del Reich, Goebbels? All’aeroporto militare imperiale di Napa, per chiedere l’assistenza dell’aviazione?

«Chiamerò il capo dell’SD, Herr B. Kreuz vom Meere,» decise ad alta voce. «E protesterò con forza. Farò una sfuriata, gli dirò quello che penso in modo molto colorito.» Cominciò a comporre il numero, registrato ufficialmente — eufemisticamente — nell’elenco telefonico di San Francisco sotto il nome dell’“Ufficio Sorveglianza Merci Preziose presso il Terminal Lufthansa dell’Aeroporto”. Mentre il telefono ronzava, aggiunse: «Lo insulterò con toni isterici molto accesi.»

«Reciti bene,» gli disse il generale Tedeki, sorridendo.

Una voce tedesca giunse all’orecchio del signor Tagomi: «Chi è?» Il tono di chi non ha tempo da perdere, peggio ancora di me, pensò il signor Tagomi. Ma era deciso a non mollare. «Presto,» aggiunse la voce, perentoria.

Il signor Tagomi esplose: «Pretendo l’arresto e l’incriminazione della sua banda di tagliagole e di degenerati che stanno impazzando come bionde belve omicide, in un modo che neppure riesco a descrivere! Mi conosce, Kerl? Sono Tagomi, consulente del Governo Imperiale. Le concedo cinque secondi, poi metterò da parte la legalità e li farò massacrare dai marines delle truppe d’assalto con le bombe al fosforo. Voi siete una disgrazia per il mondo civile!»

All’altro capo del filo il tirapiedi dell’SD stava farfugliando qualcosa, agitato.

Il signor Tagomi ammiccò al signor Baynes.

«… noi non ne sappiamo niente,» stava dicendo il tirapiedi.

«Bugiardo!» gridò il signor Tagomi. «In questo caso non abbiamo scelta.» Sbatté con violenza il ricevitore. «È soltanto un gesto, certo,» disse al signor Baynes e al generale Tedeki. «Ma non può arrecare alcun danno. C’è sempre una remota possibilità che anche nell’SD ci sia qualche elemento un po’ nervoso.»

Il generale Tedeki fece per dire qualcosa. Ma fu preceduto da un tremendo frastuono davanti alla porta dell’ufficio; allora tacque. La porta venne spalancata.

Apparvero due uomini robusti, di razza bianca, entrambi armati di pistole con silenziatore. Riconobbero Baynes.

«Da ist et [“È lui.”],» disse uno. E si mossero verso Baynes.

Da dietro la scrivania, il signor Tagomi puntò la sua antica Colt 44 da collezionisti e premette il grilletto. Uno dei due uomini dell’SD cadde a terra. L’altro rivolse rapidamente la pistola con silenziatore verso il signor Tagomi e rispose al fuoco. Il signor Tagomi non sentì partire il colpo, vide soltanto uno sbuffo di fumo uscire dalla pistola, udì il sibilo della pallottola che lo sfiorava. A tempo di record alzò il cane della Colt, e fece fuoco più volte.

La mascella dell’uomo dell’SD esplose. Frammenti di osso e carne, pezzi di denti, volarono in aria. Colpito alla bocca, si rese conto il signor Tagomi. Un colpo micidiale, specialmente se è dal basso verso l’alto. Gli occhi dell’uomo ormai senza più mascella esprimevano ancora un po’ di vita. Mi vede ancora, pensò il signor Tagomi. Poi gli occhi persero anche quella scintilla e l’uomo dell’SD crollò al suolo, lasciando cadere la pistola ed emettendo disumani rumori gorgogliami.

«Spaventoso,» disse il signor Tagomi.

Non apparvero altri agenti dell’SD.

«Forse è finita,» disse il generale Tedeki dopo un po’.

Il signor Tagomi, impegnato nel noioso compito di ricaricare l’arma, che richiedeva tre minuti, si fermò per premere il pulsante dell’interfono. «Portate il necessario per il pronto soccorso,» ordinò. «C’è un sicario conciato piuttosto male, qui.»

Nessuna risposta, solo un ronzio.

Baynes si era chinato e aveva raccolto le pistole dei due tedeschi; ne passò una al generale, tenendo l’altra per sé.

«Adesso potremo falciarli,» disse il signor Tagomi, tornando a sedersi come prima dietro la scrivania con la sua Colt 44. «C’è un trio formidabile, in questo ufficio.»

Dal corridoio una voce gridò: «Teppisti tedeschi, arrendetevi!»

«Già fatto,» gridò di rimando il signor Tagomi. «Sono a terra, uno morto e l’altro moribondo. Entrate e controllate di persona.»

Apparve un gruppetto di impiegati del Nippon Times, piuttosto guardinghi, molti dei quali brandivano armi antisommossa in dotazione all’edificio, come asce, fucili e bombe lacrimogene.

«Cause célèbre,» disse il signor Tagomi. «Il governo degli Stati Americani del Pacifico a Sacramento potrebbe dichiarare guerra al Reich senza la minima esitazione.» Aprì la sua pistola. «Comunque, è tutto finito.»

«Negheranno qualsiasi coinvolgimento,» disse Baynes. «È una tecnica standard. Utilizzata in tantissime occasioni.» Posò la pistola con il silenziatore sulla scrivania del signor Tagomi. «Fatta in Giappone.»

Non stava scherzando. Era vero. Una pistola giapponese da tiro a segno di ottima qualità. Il signor Tagomi la esaminò.

«E non sono di nazionalità tedesca,» disse Baynes. Aveva preso il portafogli di uno dei due bianchi, quello morto. «Cittadino degli Stati Americani del Pacifico. Vive a San José. Niente che lo possa collegare all’SD. Si chiama Jack Sanders.» Gettò da una parte il portafogli.

«Una rapina,» disse il signor Tagomi. «Motivo: la nostra cassaforte blindata. Nessun aspetto politico.» Si alzò faticosamente in piedi.

In ogni caso il tentativo di assassinio o di rapimento da parte dell’SD era fallito. Almeno il primo. Ma chiaramente loro sapevano bene chi era il signor Baynes e senza dubbio sapevano anche per quale motivo era venuto.