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«La prognosi,» disse il signor Tagomi, «è infausta.»

Si domandò se in un caso del genere l’oracolo poteva essere di qualche aiuto. Forse poteva proteggerli. Avvisarli, difenderli con i suoi consigli.

Ancora piuttosto scosso, cominciò a prendere i quarantanove steli di millefoglie. Tutta la situazione è confusa e anomala, decise. Nessun intelletto umano potrebbe decifrarla; solo una mente collettiva antica di cinquemila anni può fare qualcosa. La società totalitaria tedesca ricorda una qualche imperfetta forma di vita, peggiore delle cose naturali. Peggiore in tutte le sue mescolanze, nel suo caotico insieme di inutilità.

Qui, pensò, l’SD locale agisce come lo strumento di una politica del tutto diversa da quella dei suoi dirigenti di Berlino. Dov’è il senso comune, in questo essere composito? Che cos’è veramente la Germania? Che cosa è sempre stata? Quasi la rivoltante parodia da incubo dei problemi che normalmente si affrontano nel corso dell’esistenza.

L’oracolo metterà chiarezza in tutto ciò. Perfino questa schiatta di gatti impazziti che è la Germania nazista è comprensibile per l’I Ching.

Baynes, vedendo il signor Tagomi che maneggiava distrattamente la manciata di bastoncini vegetali, si rese conto di quanto quell’uomo fosse provato. Per lui, pensò Baynes, questo evento, il fatto di avere dovuto uccidere e mutilare questi due uomini, non è soltanto spaventoso: è inconcepibile.

Che cosa posso dirgli, per consolarlo? Lui ha fatto fuoco per difendermi; perciò la responsabilità morale per queste due vite è mia, e io l’accetto. Io la vedo così.

Avvicinandosi al signor Baynes, il generale Tedeki disse a bassa voce: «Lei è testimone della disperazione di quest’uomo. Senza dubbio, come può capire, è stato educato come un buddista. Anche se non formalmente, quell’influenza si è fatta sentire. Una cultura nella quale non è lecito togliere nessuna vita; tutto quello che vive è sacro.»

Baynes annuì.

«Ritroverà il suo equilibrio,» proseguì il generale Tedeki. «Con il tempo. Adesso non ha nessun punto di riferimento per vedere e comprendere il suo atto. Quel libro lo aiuterà, perché gli fornisce una struttura esterna alla quale riferirsi.»

«Capisco,» disse Baynes. Un’altra struttura di riferimento che potrebbe aiutarlo, pensò, è la dottrina del peccato originale. Chissà se ne ha mai sentito parlare. Siamo tutti condannati a commettere atti di crudeltà o di violenza o di male; è il nostro destino, dovuto a fattori antichi. Il nostro karma.

Per salvare una vita, il signor Tagomi ha dovuto prenderne due. La mente logica, equilibrata, non può trovare un senso, in questo. Un uomo mite come il signor Tagomi potrebbe impazzire per le implicazioni di una simile realtà.

Nondimeno, pensò Baynes, il punto cruciale non si trova nel presente, e nemmeno nella mia morte o nella morte dei due agenti dell’SD; si trova, ipoteticamente, nel futuro. Ciò che è avvenuto qui è giustificato, o non giustificato, da quello che avverrà in seguito. Possiamo forse salvare la vita di milioni di persone, anzi del Giappone intero?

Ma l’uomo che stava maneggiando gli steli vegetali non poteva pensare a questo; il presente, l’attualità, era troppo tangibile, i due tedeschi, uno morto e l’altro moribondo, stesi sul pavimento del suo ufficio.

Il generale Tedeki aveva ragione; il tempo avrebbe offerto al signor Tagomi la prospettiva giusta. O questo, o forse lui sarebbe scivolato nelle ombre di qualche malattia mentale, avrebbe distolto per sempre lo sguardo, a causa di una perplessità senza speranza.

E non siamo poi così diversi da lui, pensò Baynes. Dobbiamo fronteggiare la stessa confusione. Perciò, sfortunatamente, non possiamo dare nessun aiuto al signor Tagomi. Possiamo soltanto aspettare, sperando che alla fine lui si riprenda e non soccomba.

CAPITOLO TREDICESIMO

A Denver trovarono negozi eleganti e moderni. I vestiti, pensò Juliana, erano carissimi, ma Joe non sembrava preoccuparsene, e nemmeno farci caso; si limitava a pagare quello che lei sceglieva, e poi passavano di corsa al negozio successivo.

Il suo acquisto più importante, dopo avere provato molti vestiti, essere rimasta a lungo incerta su alcuni, e averne scartati altri, avvenne nel tardo pomeriggio: un capo originale italiano, color azzurro chiaro, con maniche a sbuffo e una scollatura molto accentuata. Su una rivista di moda europea aveva visto una modella che indossava un abito simile; era considerato lo stile più elegante dell’anno, e costò a Joe quasi duecento dollari.

A quel vestito Juliana volle abbinare tre paia di scarpe, altre calze di nylon, parecchi cappelli e una nuova borsa di pelle nera fatta a mano. Poi si accorse che la scollatura dell’abito italiano richiedeva un nuovo tipo di reggiseno che copriva solo la parte inferiore di ciascun seno. Vedendosi nello specchio a grandezza naturale del camerino, lei si sentì troppo scoperta e incapace di piegarsi in avanti. Ma la commessa le assicurò che il nuovo reggiseno sarebbe rimasto saldamente al suo posto, malgrado l’assenza delle spalline.

Arriva appena all’altezza del capezzolo, si disse Juliana mentre si guardava nell’intimità del camerino, e non un millimetro più su. Anche il reggiseno costava un capitale; merce d’importazione anche quella, le spiegò la commessa, fatta a mano. Le mostrò anche degli abiti sportivi, pantaloni corti e costumi da bagno e un accappatoio da spiaggia, di spugna; ma all’improvviso Joe si innervosì. E così se ne andarono.

Mentre Joe caricava i pacchi e le borse nella macchina, lei disse: «Non credi che avrò un aspetto magnifico?»

«Sì,» disse lui con voce preoccupata. «Specialmente quel vestito azzurro. Metti quello, quando andremo da Abendsen, hai capito?» Pronunciò l’ultima parola con durezza, come se fosse un ordine; il tono la lasciò perplessa.

«Ho la taglia dodici o quattordici,» disse lei mentre entravano nel successivo negozio di abbigliamento. La commessa sorrise graziosamente e li accompagnò verso le file di vestiti appesi alle rastrelliere. Che altro mi serve? si domandò Juliana. Meglio prendere il più possibile, finché si può; il suo sguardo si soffermò su ogni capo, camicette, gonne, maglie, pantaloni, pellicce. Sì, una pelliccia. «Joe,» disse, «mi serve qualcosa di lungo da mettere sopra i vestiti. Ma non un cappotto.»

Arrivarono a un compromesso con una pelliccia di fibra sintetica di provenienza tedesca; era più resistente della pelliccia naturale, e costava di meno. Ma lei rimase delusa. Per tirarsi un po’ su il morale cominciò a guardare la gioielleria. Ma si trattava di robaccia dozzinale, senza fantasia né originalità.

«Devo avere qualche gioiello,» spiegò a Joe. «Almeno degli orecchini. O una spilla, da abbinare al vestito azzurro.» Lo guidò lungo il marciapiede verso una gioielleria. «E i tuoi vestiti,» disse, sentendosi in colpa. «Dobbiamo fare spese anche per te.»

Mentre lei guardava i gioielli, Joe si fermò da un barbiere per tagliarsi i capelli. Quando riapparve, mezz’ora dopo, rimase a bocca aperta; non solo si era fatto tagliare i capelli cortissimi, ma se li era anche tinti. Faticò a riconoscerlo; adesso era biondo. Buon Dio, pensò, guardandolo. Perché?

Alzando le spalle, Joe disse: «Sono stanco di avere l’aspetto di un italiano.» Fu tutto quello che disse; si rifiutò di parlarne, mentre entravano in un negozio di abbigliamento maschile e cominciavano a scegliere qualche vestito per lui.