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Aprì l’acqua nella doccia. Vi entrò… buon Dio, aveva ancora i vestiti addosso. Un disastro. Gli abiti le si appiccicarono al corpo. I capelli erano intrisi d’acqua. Inorridita, inciampò, rischiò di cadere, cercò di uscire a tentoni. L’acqua le gocciolava dalle calze… cominciò a piangere.

Joe la trovò in piedi accanto al lavandino. Si era sfilata il vestito bagnato e rovinato; se ne stava lì tutta nuda, sorreggendosi su un braccio, piegata su se stessa, e stava cercando di riprendersi. «Gesù Cristo,» esclamò quando si accorse di lui. «Non so che cosa fare. Il mio vestito di jersey è da buttare via. È di lana.» Indicò con il dito; lui si voltò e vide il mucchio di indumenti fradici.

Anche se il suo viso era stravolto, Joe disse con molta calma: «Be’, tanto non lo avresti indossato comunque.» La avvolse in un asciugamano bianco di spugna dell’albergo, la portò fuori dal bagno fino alla stanza calda, con il pavimento ricoperto di tappeti. «Mettiti la biancheria… infilati qualcosa. Farò salire la parrucchiera qui in camera; verrà, non ti preoccupare.» Prese di nuovo il telefono e compose il numero.

«Che stavi dicendo, a proposito delle pillole?» gli domandò, quando posò il ricevitore.

«Me ne sono dimenticato. Richiamerò la farmacia. No, aspetta; ho qualcosa con me. Nembutal o roba del genere.» Si precipitò verso la sua valigia e cominciò a frugare.

Mentre le porgeva due capsule gialle, lei gli chiese: «Mi distruggeranno?» Le accettò senza quasi rendersene conto.

«Che cosa?» disse lui, con il volto deformato dalla tensione.

Corrompere la parte inferiore del mio corpo, pensò lei. Inaridirmi il grembo. «Voglio dire,» spiegò, guardinga, «indeboliranno la mia concentrazione.»

«No… è un prodotto della A.G. Chemie usato in Germania. Lo prendo quando non riesco a dormire. Ti porto un bicchiere d’acqua.» Se ne andò di corsa.

La lametta, pensò. Forse l’ho inghiottita; adesso mi taglierà le viscere per sempre. Punizione. Sposata a un ebreo, adesso me la faccio con un assassino della Gestapo. Sentì le lacrime, brucianti, che le riempivano gli occhi. Per tutto ciò che ho fatto. Rovinata. «Coraggio,» disse, alzandosi in piedi. «La parrucchiera.»

«Non sei ancora vestita!» La prese, la fece rimettere a sedere, cercò senza successo di infilarle le mutandine. «Bisogna che ti sistemi i capelli,» le disse con voce disperata. «Dov’è quella Hur, quella donna?»

«È il pelo che fa l’orso, che nella sua nudità si nasconde,» disse lei, parlando lentamente e con grande fatica, «non c’è pelliccia da appendere a un gancio. Il gancio di Dio. Peli, sentire, Hur.» Quelle pillole la stavano divorando. Probabilmente acido di trementina. Si sono messi tutti insieme, hanno optato per il solvente più pericoloso e corrosivo, perché mi divori in eterno.

Guardandola, Joe impallidì. Deve leggere dentro di me, pensò lei. Legge la mia mente con la sua macchina, anche se non riesco a individuarla.

«Quelle pillole,» disse lei. «Confondono e disorientano.»

«Non le hai prese,» lui disse, indicando il suo pugno chiuso; lei si rese conto che le aveva ancora lì. «Tu sei malata di mente,» le disse. Era diventato lento, pesante, come una massa inerte. «Tu stai molto male. Non possiamo andare.»

«No dottore,» disse lei. «Adesso starò meglio.» Si sforzò di sorridere; lo guardò in volto, per capire se c’era riuscita. Un riflesso del suo cervello ha colto i miei pensieri in disfacimento.

«Non posso portarti da Abendsen.» disse Joe. «Non adesso, almeno. Domani. Forse starai meglio. Ci proveremo domani. Dobbiamo farlo.»

«Posso tornare in bagno?»

Lui annuì, con il volto piegato in una smorfia, ascoltandola appena. Così lei tornò in bagno, e richiuse la porta. Prese nell’armadietto un’altra lametta, tenendola nella mano destra. Uscì di nuovo.

«Addio,» disse.

Mentre Juliana apriva la porta del corridoio lui lanciò un’esclamazione, cercando di aggrapparsi freneticamente a lei.

Zac. «È orribile,» disse. «Ti aggrediscono. Avrei dovuto saperlo.» Sono pronta per affrontare un borsaiolo; ci sono malintenzionati di ogni genere in giro di notte, ma posso certamente cavarmela. Che fine ha fatto questo qui? Lo prese per il collo, quasi ballando. «Fammi passare,» disse. «Non sbarrarmi la strada se non vuoi una lezione. Comunque, io do lezioni solo alle donne.» Tenendo la lametta sollevata verso l’alto, aprì del tutto la porta. Joe era seduto sul pavimento, le mani premute su un lato della gola. Nella posizione di chi ha preso un colpo di sole. «Addio,» gli disse, e si richiuse la porta alle spalle. Il corridoio caldo, con i suoi tappeti.

Una donna con un camice bianco, che canticchiava e spingeva un carrello, a testa bassa. Controllò i numeri delle stanze, arrivò davanti a Juliana; la donna alzò la testa, strabuzzò gli occhi e rimase a bocca aperta.

«Oh, dolcezza,» disse, «lei è proprio sbronza; ha bisogno di ben altro che una parrucchiera… rientri nella sua stanza e si infili qualche vestito, prima che la caccino via da quest’albergo. Santo Dio.» Aprì la porta dietro Juliana. «Dica al suo uomo di calmarla; le farò mandare subito del caffè bollente. Adesso la prego, rientri nella stanza.» La spinse dentro e richiuse la porta alle sue spalle, e il rumore del carrello si affievolì.

La parrucchiera, si rese conto Juliana. Si guardò e vide che non aveva niente indosso; la donna aveva ragione.

«Joe,» disse, «non mi lasciano andare.» Trovò il letto, la sua valigia, la aprì, ne tirò fuori i vestiti. Biancheria, gonna e camicetta… un paio di scarpe con il tacco basso. «Mi hanno fatto rientrare,» disse. Trovò un pettine e si pettinò in fretta, poi lo ripulì. «Che avventura. Quella donna era là fuori, stava per bussare.» Si alzò e andò in cerca dello specchio. «Va meglio così?» Lo specchio nell’anta dell’armadio; si voltò e si diede un’occhiata, piegandosi e mettendosi in punta di piedi. «Sono così imbarazzata,» disse, guardandosi intorno in cerca di lui. «Non so neppure quello che sto facendo. Devi avermi dato qualcosa; qualsiasi cosa fosse, mi ha fatto solo stare male, invece di aiutarmi.»

Sempre seduto sul pavimento, stringendosi il collo, Joe disse: «Ascoltami. Sei stata molto in gamba. Mi hai tagliato l’aorta. L’arteria del collo.»

Con una risatina, lei si portò la mano alla bocca. «Oddio… sei così buffo. Insomma, sbagli tutte le parole. L’aorta è nel petto; vorrai dire la carotide.»

«Se tolgo la mano,» disse lui, «morirò dissanguato entro due minuti. Lo sai. Perciò cerca di aiutarmi, chiama un dottore o un’ambulanza. Mi capisci? L’hai fatto apposta? È evidente. D’accordo… vuoi andare a chiamare qualcuno?»

Dopo averci pensato su, disse: «Sì, l’ho fatto apposta.»

«Bene,» disse lui, «comunque fa’ venire qualcuno. Fallo per me.»

«Vacci da solo.»

«Non sono riuscito a chiudere del tutto la ferita.» Il sangue gli filtrava fra le dita, vide lei, e scivolava lungo il polso, formando una pozza sul pavimento. «Non oso muovermi. Devo restare qui.»

Juliana indossò il vestito nuovo, chiuse la borsetta di cuoio fatta a mano, prese la valigia e quanti più pacchetti, fra i suoi, che le riuscì di portare; si accertò in particolare di avere preso la scatola grande, dove c’era, accuratamente piegato, il vestito italiano azzurro. Mentre apriva la porta del corridoio, si girò a guardare Joe. «Magari avvertirò quelli del bureau,» disse. «Di sotto.»