Che cosa vedo? si chiese. Dopo tutto questo lungo, estenuante studio. Qual è la chiave di verità che mi lega a questo oggetto?
Arrenditi, disse al triangolo d’argento. Sputa fuori il tuo arcano segreto.
Come una rana strappata al fondo di uno stagno, pensò. La stringi nel pugno, le ordini di riferire che cosa c’è infondo all’acqua. Ma qui la rana non ti prende nemmeno in giro; soffoca in silenzio, diventa pietra o argilla o minerale. Inerte. Torna alla rigida sostanza familiare nel suo mondo-tomba.
Il metallo viene dalla terra, pensò mentre osservava. Da ciò che sta sotto: da quel regno che è il più basso e il più denso. Luogo di folletti e di caverne, umido, sempre buio. Il mondo yin, nel suo aspetto più malinconico. Il mondo dei cadaveri, del disfacimento, della rovina. Delle feci. Di tutto ciò che è morto, che è scivolato verso il basso e si è disintegrato, strato dopo strato. Il mondo demoniaco dell’immutabile; il tempo-che-fu.
Eppure, alla luce del sole, il triangolo d’argento scintillava. Rifletteva la luce. Fuoco, pensò il signor Tagomi. Non è per niente un oggetto umido o buio. Non è pesante, fiacco, ma pulsa di vita. Il regno superiore, l’aspetto dello yang: empireo, etereo. Come si addice a un’opera d’arte. Sì, questo è il compito dell’artista: prende la roccia minerale dalla terra buia e silenziosa, la muta in una forma risplendente, che riflette la luce dal cielo.
Ha riportato i morti alla vita. Un cadavere trasformato in un oggetto fiammeggiante; il passato si è arreso al futuro.
Che cosa sei? domandò al ghirigoro d’argento. Uno yin, buio e morto, o uno yang, brillante e vivo? Nel suo palmo il gioiello danzò, abbagliandolo; lui chiuse gli occhi, vedendo soltanto il guizzare del fuoco.
Corpo di yin, anima di yang. Metallo e fuoco uniti insieme. L’esterno e l’interno; il microcosmo nella mia mano.
Qual è lo spazio di cui parla? Ascesa verticale. Verso il paradiso. Del tempo? Nel mondo di luce del mutevole. Sì, questa cosa ha liberato il suo spirito: la luce. E la mia attenzione è catturata; non posso guardare altrove. Un incantesimo emana dalla superficie scintillante, ipnotica, e io non sono più in grado di controllarlo. Non sono più libero di sottrarmi.
Adesso parlami, gli disse. Adesso che mi hai preso al laccio. Voglio sentire la tua voce che esce dalla luce bianca, abbagliante, come ci si aspetta di vedere solo nell’esperienza del Bardo Thödol, dopo la vita terrena. Ma io non devo attendere la morte, la decomposizione del mio spirito mentre si aggira in cerca di un nuovo grembo. Tutte le divinità terrificanti e benevole, noi le aggireremo, e così anche le luci velate di fumo. E le coppie nel coito. Tutto tranne questa luce. Sono pronto ad affrontare ogni cosa, senza terrore. Guarda, non impallidisco nemmeno.
Sento i venti caldi del karma che mi guidano. Però rimango qui. Il mio addestramento era corretto; io non devo rifuggire dalla luce bianca, perché se lo faccio rientrerò di nuovo nel ciclo della nascita e della morte, senza mai conoscere la libertà, senza mai avere un po’ di sollievo. Il velo di Maya cadrà ancora una volta se io…
La luce scomparve.
Aveva in mano solamente un triangolo d’argento opaco. Un’ombra aveva coperto il sole; il signor Tagomi alzò gli occhi.
Un poliziotto alto, con la divisa azzurra, in piedi accanto alla panchina, sorrideva.
«Eh, cosa?» disse il signor Tagomi, trasalendo.
«Stavo solo guardando come risolveva quel rompicapo.» Il poliziotto proseguì lungo il vialetto.
«Rompicapo,» ripeté il signor Tagomi. «Non è un rompicapo.»
«Non è uno di quei piccoli giochi di pazienza che bisogna smontare? Mio figlio ne ha un sacco. Alcuni sono complicati.» Il poliziotto se ne andò.
Persa per sempre, pensò il signor Tagomi. La mia occasione di raggiungere il nirvana. Interrotta da quel bianco yank, quel barbaro del Neanderthal. Quel subumano pensava che mi stessi divertendo con un giochino per bambini.
Si alzò dalla panchina e percorse stancamente qualche passo. Devo calmarmi. Le volgari invettive razziste e scioviniste sì addicono a un uomo di classe inferiore, sono indegne di me.
Incredibili passioni senza redenzione si scontrano nel mio petto. Si incamminò attraverso il parco. Devo continuare a muovermi, si disse. La catarsi è nel movimento.
Giunse alla periferia del parco. Il marciapiede. Kearny Street. Il traffico pesante, rumoroso. Il signor Tagomi si fermò sul bordo.
Nessun taxi a pedali. Allora si mise a camminare lungo il marciapiede, unendosi alla folla. Non se ne trova mai uno, quando ne hai bisogno.
Dio, quello che cos’è? Si fermò, fissando a bocca aperta quell’orrenda sagoma sgraziata che si stagliava contro il cielo. Come un ottovolante da incubo librato nel vuoto, che nascondeva la visuale. Un’enorme costruzione di metallo e cemento sospesa nell’aria.
Il signor Tagomi fermò un passante, un uomo magro dal vestito sgualcito. «Che cos’è quello?» gli domandò, indicando col dito.
L’uomo fece una smorfia. «Orribile, vero? È la superstrada dell’Imbarcadero. Un sacco di gente pensa che rovini il panorama.»
«È la prima volta che la vedo,» disse il signor Tagomi.
«Lei è fortunato,» disse l’uomo, e se ne andò.
Un sogno folle, pensò il signor Tagomi. Devo svegliarmi. Dove sono i taxi a pedali, oggi? Cominciò a camminare più veloce. L’intero panorama aveva un aspetto sbiadito, offuscato, quasi funereo. Puzza di bruciato. Palazzi grigi, anonimi, il marciapiede, le persone che camminavano con un ritmo strano. E ancora nessun taxi a pedali.
«Taxi!» gridò mentre accelerava il passo.
Nessuna speranza. Soltanto macchine e autobus. Macchine che sembravano enormi, brutali frantumatrici meccaniche, tutte dalla forma sconosciuta. Evitò di guardarle, tenendo gli occhi fissi davanti a sé. È una deformazione della mia percezione ottica, di natura particolarmente sinistra. Un disturbo che distorce il mio senso spaziale. L’orizzonte deformato. Come un micidiale astigmatismo che colpisce senza preavviso.
Devo trovare un attimo di tregua. Più avanti uno squallido chiosco-ristorante. All’interno solo bianchi, intenti a mangiare. Il signor Tagomi spalancò i battenti di legno. Profumo di caffè. Un grottesco juke-box latrava in un angolo; scosso da un fremito, si fece strada verso il banco. Tutti gli sgabelli erano occupati da bianchi. Il signor Tagomi lanciò un’esclamazione. Parecchi bianchi alzarono gli occhi. Ma nessuno lasciò il suo posto. Nessuno gli cedette lo sgabello. Ripresero tranquillamente a mangiare.
«Insisto!» disse ad alta voce il signor Tagomi al bianco più vicino, strillandogli proprio nell’orecchio.
L’uomo posò la tazza di caffè e disse: «Attento a te, Tojo.»
Il signor Tagomi guardò gli altri bianchi; tutti lo osservavano con espressione ostile. E nessuno si mosse.
L’esistenza del Bardo Thödol, pensò il signor Tagomi. Venti caldi che mi trasportano chissà dove. Questa è la visione… di che cosa? Può lo spirito sopportare tutto ciò? Sì, Il Libro dei Morti ci prepara: dopo la morte sembra di intravedere gli altri, ma tutto ci appare ostile. Ci si trova isolati. Senza aiuto, da qualunque parte ci si rivolga. Il terribile viaggio… e sempre i regni della sofferenza, della rinascita, pronti a ricevere lo spirito che fugge, demoralizzato. Le illusioni.