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«Forse per lui sarebbe meglio andare nelle Isole Patrie,» disse il signor Tagomi, rivolto soprattutto a se stesso. In ogni caso, loro erano interessati maggiormente al vecchio generale. E poi è al di là delle mie possibilità, pensò il signor Tagomi. Me stesso, il mio ufficio; si sono serviti di me, qui, il che naturalmente era giusto e necessario. Io ero la loro… com’è che dicono? La loro copertura.

Io sono una maschera che nasconde la realtà. Dietro di me, nascosta, la realtà continua, al riparo da occhi indiscreti.

Strano, pensò. A volte è importante essere semplicemente una facciata di cartone. C’è un po’ di satori in tutto questo, se solo riuscissi a capirlo. Lo scopo all’interno di uno schema complessivamente illusorio, del quale non sappiamo andare a fondo. È la legge dell’economia: niente va sprecato, nemmeno l’irreale. Sublime, questo processo.

Apparve la signorina Ephreikian, molto agitata. «Signor Tagomi, mi ha mandato la centralinista.»

«Si calmi, signorina,» le disse il signor Tagomi. La corrente del tempo ci sospinge, pensò.

«Signore, il console tedesco è qui. Vuole parlarle.» Spostò lo sguardo verso il signor Ramsey, poi di nuovo su di lui, il volto di un pallore innaturale. «Dicono che è venuto anche prima, ma sapevano che lei…»

Il signor Tagomi la zittì con un gesto della mano. «Signor Ramsey. Per favore, mi ricordi come si chiama il console.»

«Freiherr Hugo Reiss, signore.»

«Adesso mi ricordo.» Be’, pensò, evidentemente il signor Childan mi ha fatto un favore, dopo tutto. Rifiutandosi di riprendere indietro la pistola.

Stringendo la borsa, lasciò l’ufficio e uscì nel corridoio.

C’era un bianco ben vestito, piuttosto magro. Capelli color arancio, tagliati corti, il portamento eretto, un paio di scarpe di pelle nera lucida con i lacci, di fabbricazione europea. E un effeminato bocchino d’avorio. Era lui, senza dubbio.

«Herr H. Reiss?» chiese il signor Tagomi.

Il tedesco si inchinò.

«È un dato di fatto,» disse il signor Tagomi, «che in passato lei e io abbiamo avuto rapporti di affari per posta, per telefono, eccetera. Ma fino ad ora non ci eravamo mai visti di persona.»

«È un onore,» disse Herr Reiss, avanzando verso di lui. «Anche considerando le spiacevoli, irritanti circostanze.»

«È quello che mi domando,» disse il signor Tagomi.

Il tedesco sollevò un sopracciglio.

«Mi scusi,» disse il signor Tagomi. «La mia confusione è aumentata proprio a causa di queste circostanze a cui lei ha fatto riferimento. La fragilità di un corpo fatto d’argilla, si potrebbe dire.»

«Terribile,» disse Herr Reiss. Scosse la testa. «Non appena ho…»

«Prima di dare inizio alla sua litania,» lo interruppe il signor Tagomi, «mi lasci parlare.»

«Certamente.»

«Ho sparato io personalmente ai vostri due agenti,» disse il signor Tagomi.

«Sono stato convocato dal Dipartimento di Polizia di San Francisco,» disse Herr Reiss, esalando una maleodorante nuvola di fumo che avvolse entrambi. «Sono rimasto per ore alla stazione di Kearny Street, e all’obitorio, e quindi ho letto il rapporto che i suoi uomini hanno fornito agli ispettori della polizia. Assolutamente spaventoso, dall’inizio alla fine.»

Il signor Tagomi non disse nulla.

«Comunque,» continuò Herr Reiss, «l’ipotesi che quei delinquenti fossero collegati con il Reich non è stata confermata. Per quanto mi consta, l’intera faccenda è una follia. Sono sicuro che lei abbia agito nel modo più appropriato, signor Tagori.»

«Tagomi.»

«Ecco, le porgo la mano,» disse il console, con un gesto eloquente nei confronti di Tagomi. «Facciamo un accordo fra gentiluomini e dimentichiamo tutto. Non è il caso di insistere oltre, specialmente in tempi critici come questi, in cui qualunque stupida pubblicità infiamma la mente degli uomini, a detrimento degli interessi delle nostre due nazioni.»

«Però il mio animo è oppresso dalla colpa,» disse il signor Tagomi. «Non si può cancellare il sangue, Herr Reiss, come se fosse inchiostro.»

Il console sembrò imbarazzato.

«È il perdono che cerco,» disse il signor Tagomi. «Ma lei non può darmelo. Forse nessuno può darmelo. Ho intenzione di leggere il famoso diario dell’antico saggio del Massachusetts, Goodman C. Mather. Mi risulta che parli della colpa, del fuoco dell’inferno e così via.»

Il console continuava a fumare rapidamente, studiando con molta attenzione il signor Tagomi.

«Mi consenta di informarla,» disse il signor Tagomi, «che il suo paese sta per commettere una vigliaccheria senza precedenti. Lei conosce l’esagramma chiamato L’Abisso? Parlando a titolo personale, e non come rappresentante ufficiale del Giappone, io dichiaro: il mio cuore è spezzato dall’orrore. Si sta per scatenare un bagno di sangue che non ha confronti. Eppure anche in questo momento lei si affanna egoisticamente per ricavare qualche piccolo vantaggio senza importanza. Per avere la meglio sulla fazione rivale, l’SD, eh? Quando avrà messo in pentola Herr B. Kreuz vom Meere…» Non riuscì a concludere. Provava un senso di oppressione al petto. Come da bambino, pensò. Una forma d’asma, che si scatenava quando era arrabbiato con sua madre. «Io soffro,» disse a Herr Reiss, che aveva spento la sigaretta. «Di una malattia che è peggiorata in questi lunghi anni, ma che ha assunto una forma virulenta il giorno in cui ho dovuto ascoltare, impotente, le prodezze dei suoi capi. Comunque non esiste nessuna possibilità di guarigione. Nemmeno per lei, signore. Nel linguaggio di Goodman C. Mather, se ricordo bene: pentiti!»

«Ricorda bene,» disse il console tedesco, in tono brusco. Annuì con un cenno del capo, poi si accese un’altra sigaretta con le dita che gli tremavano.

Dall’ufficio apparve il signor Ramsey. Aveva con sé un fascio di modelli e di incartamenti. Al signor Tagomi, che era rimasto in silenzio nel tentativo di calmare il respiro, disse: «Visto che è qui, c’è una pratica che lo riguarda.»

Meccanicamente, il signor Tagomi prese le carte che il signor Ramsey gli porgeva. E le scorse. Modulo 20-50. La richiesta da parte del Reich, attraverso il suo rappresentante negli Stati Uniti del Pacifico, il console Freiherr Hugo Reiss, per l’estradizione di un criminale attualmente affidato alla custodia del Dipartimento di Polizia di San Francisco. Un ebreo di nome Frank Fink, cittadino tedesco, in base alla legge del Reich del giugno 1960, con validità retroattiva. Perché venisse affidato alla custodia protettiva del Reich, eccetera. Lo controllò una seconda volta.

«La penna, signore,» gli disse Ramsey. «Questo esaurisce i rapporti con il governo tedesco, per oggi.» Guardò il console con disgusto, mentre porgeva la penna al signor Tagomi.

«No,» disse il signor Tagomi, e restituì al signor Ramsey il modello 20-50. Poi lo riprese, e scarabocchiò in calce: “Ordine di rilascio. Missione Commerciale, Autorità di San Francisco. Vedi Protocollo Militare 1947. Tagomi”. Ne diede una copia carbone al console tedesco, e le altre, insieme all’originale, al signor Ramsey. «Buongiorno, Herr Reiss.» Si inchinò.

Il console tedesco fece altrettanto, quasi senza degnare di un’occhiata il documento.

«La prego di sbrigare le pratiche future attraverso strumenti di comunicazione quali la posta, il telefono, il telegrafo,» disse il signor Tagomi. «Non di persona.»

«Lei mi ritiene responsabile di una situazione generale che va al di là della mia giurisdizione,» disse il console.

«Stronzate,» replicò il signor Tagomi. «Ecco quello che le dico.»

«Non è questo il modo in cui le persone civili conducono gli affari,» disse il console. «Lei si sta comportando in modo risentito e vendicativo. Laddove dovrebbe trattarsi di una semplice formalità, senza nessun coinvolgimento personale.» Gettò la sigaretta sul pavimento del corridoio, poi si voltò e si allontanò.