«Si riprenda quella dannata sigaretta puzzolente,» disse debolmente il signor Tagomi, ma il console aveva già svoltato l’angolo. «Un comportamento infantile, il suo,» disse al signor Ramsey. «Lei è stato testimone di un vergognoso comportamento infantile.» Si trascinò a fatica nel suo ufficio. Adesso non respirava quasi più. Una fitta gli attraversò il braccio sinistro, e contemporaneamente il gigantesco palmo di una mano aperta si abbatté si di lui e gli schiacciò le costole. Uuf esclamò. Di fronte a lui non più il tappeto, ma una pioggia di scintille rosse che vorticavano.
Aiuto, signor Ramsey, disse. Ma non gli uscì alcun suono. Per favore. Allungò una mano, inciampò. Non c’era niente a cui aggrapparsi.
Mentre cadeva strinse nella mano che teneva in tasca il triangolo d’argento che il signor Childan gli aveva dato. Non mi hai salvato, pensò. Non mi sei stato di nessun aiuto. Tutta quella fatica per niente.
Il suo corpo urtò il pavimento. Boccheggiava, appoggiandosi sulle mani e sulle ginocchia, con il tappeto all’altezza del naso. Adesso il signor Ramsey gli correva attorno, strepitando. Cerca di non perdere la calma, pensò il signor Tagomi.
«Ho un leggero attacco di cuore,» riuscì a dire il signor Tagomi.
Adesso c’erano diverse persone che si occupavano di lui, trasportandolo sul divano. «Stia calmo, signore,» gli stava dicendo una di loro.
«Avvertite mia moglie, per favore,» disse il signor Tagomi.
Poco dopo udì la sirena dell’ambulanza. Ululava dalla strada. Poi una gran confusione. Gente che andava e veniva. Qualcuno gli mise sopra una coperta, fino alle ascelle. Gli tolsero la cravatta, sbottonarono il colletto della camicia.
«Mi sento meglio, adesso,» disse il signor Tagomi. Era comodamente sdraiato, e cercava di non muoversi. La mia carriera finisce qui, comunque. Certamente il console tedesco protesterà molto in alto. Si lamenterà della mia maleducazione. E magari avrà anche ragione di farlo. In ogni caso, ormai è andata così. Ho fatto la mia parte, fin dove potevo. Il resto toccherà a Tokyo e alle fazioni tedesche. Comunque la lotta è al di là delle mia capacità.
Pensavo che si trattasse semplicemente di materie plastiche, pensò. Che quell’uomo fosse un alto rappresentante del settore. L’oracolo lo aveva capito e mi aveva dato un’indicazione, ma…
«Toglietegli la camicia,» ordinò una voce. Senza dubbio il medico del palazzo. Un tono molto autoritario; il signor Tagomi sorrise. Il tono è tutto.
Potrebbe essere questa la risposta? si chiese il signor Tagomi. Il mistero del corpo, la sua stessa conoscenza. È tempo di cedere. Almeno parzialmente. Uno scopo al quale devo sottomettermi.
Che cosa gli aveva detto l’oracolo, l’ultima volta? Alla richiesta che gli aveva rivolto in ufficio, di fronte a quei due uomini, uno morto e l’altro moribondo? Sessantuno. La Verità Interiore. Pesci e maiali sono i meno intelligenti di tutti; è difficile influenzarli. Sono io. Il libro si riferisce a me. Io non capirò mai completamente; questa è la natura di quelle creature. Oppure è la Verità Interiore, quello che mi sta succedendo adesso?
Attenderò. Vedrò. Che cos’è.
Forse tutte e due le cose.
Quella sera, subito dopo cena, un ufficiale di polizia si recò nella cella di Frank Frink, aprì la porta e gli disse di andarsi a riprendere i suoi oggetti nell’ufficio.
Dopo breve tempo si ritrovò sul marciapiede davanti alla stazione di Kearny Street, tra il frenetico andirivieni di passanti, gli autobus e le macchine che strombazzavano il clacson e i guidatori di taxi a pedali che strillavano. L’aria era fredda. Davanti a ogni palazzo si erano formate lunghe ombre. Frank Frink esitò in attimo, poi si infilò automaticamente in un gruppo di persone che attraversava la strada sulle strisce pedonali.
Arrestato senza un vero motivo, pensò. Nessuna ragione. E poi mi lasciano andare nello stesso modo.
Non gli avevano detto niente, si erano limitati a restituirgli il suo sacchetto di vestiti, il portafogli, l’orologio, gli occhiali, gli oggetti personali, e poi si erano occupati del loro successivo impegno, un vecchio ubriaco fermato per la strada.
Un miracolo, pensò. Che mi abbiano lasciato libero. Un vero e proprio colpo di fortuna. Secondo la legge io dovrei trovarmi a bordo di un aereo diretto in Germania, per essere eliminato.
Non riusciva ancora a crederci. A nessuna delle due cose, all’arresto e alla liberazione. Irreale. Proseguì senza meta oltrepassando i negozi chiusi, evitando mucchi di rifiuti portati dal vento.
Una nuova vita, pensò. Come una rinascita. Non come, cavolo. È una rinascita.
Chi devo ringraziare? Forse dovrei pregare?
Pregare per che cosa?
Vorrei capire, si disse mentre percorreva il marciapiede affollato, nella sera, accanto alle insegne al neon e alle porte rumorose dei bar di Grant Avenue. Voglio comprendere. Devo comprendere.
Ma sapeva che non ci sarebbe mai riuscito.
Una parte della sua mente diceva “e adesso andiamo da Ed”. Devo ritornare al laboratorio, laggiù in quella cantina. Ricominciare da dove mi sono interrotto, creare gioielli, usare le mie mani. Lavorare e non pensare, non alzare gli occhi né cercare di capire. Devo tenermi occupato. Fabbricare pezzi di oreficeria.
Un isolato dopo l’altro, attraversò di corsa la città che diventava sempre più buia. Nel tentativo di arrivare il più presto possibile in quel posto sicuro, comprensibile, dove era stato prima.
Quando lo raggiunse trovò Ed McCarthy seduto al banco da lavoro, che stava cenando. Due panini, un thermos di tè, una banana, diversi dolci. Frank Frink si fermò sulla soglia, ansimando.
Alla fine Ed lo sentì e si voltò. «Pensavo che fossi morto,» disse. Masticò, deglutì ritmicamente, diede un altro morso.
Accanto al banco, Ed aveva acceso la piccola stufa elettrica; Frank si avvicinò e si accucciò, riscaldandosi le mani.
«È bello rivederti,» disse Ed. Diede due pacche sulla spalla di Frank, poi tornò al suo panino. Non disse altro; gli unici rumori erano il fruscio del ventilatore della stufa e il masticare di Ed.
Frank appoggiò il cappotto su una sedia, raccolse una manciata di pezzi d’argento incompleti e li portò all’albero rotante. Avvitò una ruota di lana sul perno e accese il motore; passò sulla lana un composto per lucidare, si mise la maschera per proteggere gli occhi, poi si sedette su uno sgabello e cominciò a rimuovere le impurità dai segmenti, uno a uno.
CAPITOLO QUINDICESIMO
Il capitano Rudolf Wegener, che al momento viaggiava sotto il falso nome di Conrad Goltz, commerciante di prodotti medicinali all’ingrosso, sbirciò dal finestrino del razzo Lufthansa Me9-E. L’Europa era davanti a lui. Come abbiamo fatto presto, pensò. Atterreremo al Tempelhof Feld fra circa sette minuti.
Mi domando che cosa ho ottenuto, rifletté mentre osservava la terraferma che diventava più grande. Adesso è tutto nelle mani del generale Tedeki. Qualunque cosa possa ottenere nelle Isole Patrie. Ma quanto meno avranno avuto l’informazione. Noi abbiamo fatto quello che potevamo.