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«L’utente non risponde,» disse alla fine la centralinista di Cheyenne. «Proveremo a ristabilire la comunicazione più tardi e…»

«No,» disse Juliana, scuotendo la testa. In fondo il suo era solo un capriccio. «Non sarò più qui. Grazie.» Riappese — il proprietario del motel era rimasto nei pressi per accertarsi che non ci fosse per errore qualche addebito a carico suo — e uscì rapidamente dall’ufficio, sul marciapiede buio e freddo, per aspettare là fuori.

Dal traffico emerse un taxi nuovo e rilucente che accostò e si fermò; la portiera si aprì e l’autista si precipitò fuori per farla accomodare.

Poco dopo Juliana era comodamente seduta sul sedile posteriore del taxi, e attraversava Cheyenne diretta verso l’abitazione degli Abendsen.

La casa degli Abendsen era illuminata e lei udì della musica e delle voci. Era una casa a un solo piano decorata a stucco, con molti cespugli tutt’intorno e un bel giardino composto prevalentemente da rose rampicanti. Mi trovo davvero qui? si domandò mentre percorreva il sentiero d’ingresso lastricato in pietra. È questo il Castello? E tutte le storie che raccontano, allora? La casa era semplice, ben tenuta, e il giardino piuttosto curato. C’era perfino un triciclo, sul vialetto di cemento che portava al garage.

Forse era un altro Abendsen, quello sbagliato? L’indirizzo lo aveva preso dall’elenco telefonico di Cheyenne, ma coincideva con il numero che aveva chiamato la sera prima da Greeley.

Risalì i gradini fino al portico, con le ringhiere di ferro battuto, e suonò il campanello. Dalla porta semiaperta poteva vedere il soggiorno, con un certo numero di persone in piedi, le veneziane alle finestre, un pianoforte, il caminetto, delle librerie… ben ammobiliato, pensò. C’era forse una festa? Però non erano vestiti in modo elegante.

Un ragazzo scapigliato, sui tredici anni, in jeans e maglietta, venne a spalancare la porta. «È… la casa del signor Abendsen? È occupato?» lei domandò.

Rivolgendosi a qualcuno dietro di lui, dentro casa, il ragazzo gridò: «Mamma, vogliono vedere papà.»

Accanto al ragazzo apparve una donna dai capelli bruno-rossicci, sui trentacinque anni, con occhi grigi e decisi e un sorriso così aperto e spontaneo che Juliana fu sicura di trovarsi di fronte a Caroline Abendsen.

«Ho chiamato ieri sera,» disse Juliana.

«Oh, sì, certo.» Il sorriso si allargò. Aveva denti bianchi e regolari, perfetti; irlandese, decise Juliana. Solo il sangue irlandese può conferire alla linea della mascella una tale femminilità. «Mi dia pure la borsa e la pelliccia. È capitata al momento giusto; ci sono degli amici. Che vestito adorabile… è della casa Cherubini, vero?» Accompagnò Juliana attraverso il soggiorno fino a una camera da letto dove posò le cose di Juliana sopra il letto insieme alle altre. «Mio marito è qui intorno, da qualche parte. Cerchi un uomo alto, con gli occhiali, che beve un old-fashioned.» La luce di intelligenza nei suoi occhi si riversò su Juliana; le sue labbra tremarono appena… c’è così tanta comprensione fra noi, si rese conto Juliana. Non è straordinario?

«Ho fatto molta strada per venire qui,» disse Juliana.

«Sì, è vero. Eccolo, l’ho visto.» Caroline Abendsen la guidò di nuovo in soggiorno, verso un gruppetto di uomini. «Caro,» lo chiamò, «vieni qui. C’è una tua lettrice che è molto ansiosa di parlarti.»

Dal gruppetto si staccò un uomo, che si avvicinò a lei tenendo in mano il bicchiere. Juliana vide un uomo altissimo con capelli neri e ricci; anche la sua pelle era scura, e i suoi occhi, dietro le lenti, sembravano viola o castani, comunque di un colore tenue. Indossava un abito in fibra naturale tagliato a mano, molto costoso, forse di lana inglese; il vestito gli ingrandiva le spalle già robuste ma senza deformarne la figura. In tutta la sua vita lei non aveva mai visto un vestito del genere; si scoprì a fissarlo, affascinata.

«La signora Frink ha fatto tutta la strada da Canon City, Colorado, solo per parlare con te della Cavalletta,» disse Caroline.

«Credevo che lei vivesse in una fortezza,» disse Juliana.

Piegandosi per guardarla, Hawthorne Abendsen le rivolse un sorriso pensoso. «Sì, una volta era così. Ma per arrivarci dovevamo prendere l’ascensore, e questo ha fatto insorgere in me una fobia. Ero piuttosto ubriaco quando mi successe per la prima volta, ma per quanto ricordo, e per quanto mi hanno riferito, mi sono rifiutato di stare là dentro in piedi perché sostenevo che il cavo dell’ascensore veniva tirato da Gesù Cristo in persona, e che noi saremmo arrivati fino in cielo. E io ero fermamente intenzionato a non stare in piedi.»

Lei non capì.

«Da quando lo conosco,» le spiegò Caroline, «Hawth ha sempre affermato che quando finalmente vedrà Gesù Cristo, si metterà a sedere; non rimarrà in piedi.»

L’inno, ricordò Juliana. «E così lei ha rinunciato al Castello e si è trasferito in città,» disse.

«Vorrei offrirle da bere,» disse Hawthorne.

«Va bene,» disse lei. «Ma non un old-fashioned.» Aveva già notato sulla credenza diverse bottiglie di whisky, degli antipasti, bicchieri, ghiaccio, mixer, ciliegie e fettine di arancia. Si avvicinò, accompagnata da Abendsen. «Un semplice I.W. Harper con un po’ di ghiaccio,» disse. «Mi è sempre piaciuto. Lei conosce l’oracolo?»

«No,» rispose Hawthorne, mentre le preparava il drink.

Stupita, Juliana disse: «Il Libro dei Mutamenti!»

«No, non lo conosco,» ripeté lui. Le porse il bicchiere.

«Non prenderla in giro,» osservò Caroline Abendsen.

«Ho letto il suo libro,» disse Juliana. «In effetti ho finito di leggerlo proprio stasera. Come faceva a sapere tutte quelle cose, sull’altro mondo di cui ha parlato?»

Hawthorne non disse nulla; si passò le nocche sul labbro superiore, guardando accigliato al di là della sua interlocutrice.

«Ha usato l’oracolo?» gli chiese Juliana.

Hawthorne la fissò.

«Non voglio scherzi o battute di spirito,» disse Juliana. «Mi risponda senza fare dell’umorismo.»

Mordicchiandosi le labbra, Hawthorne abbassò lo sguardo a terra; incrociò le braccia e si dondolò avanti e indietro sui talloni. Quasi tutte persone vicine presenti nella stanza erano diventate silenziose, e Juliana si accorse che il loro atteggiamento era cambiato. Adesso parevano a disagio, a causa di ciò che lei aveva detto. Ma non tentò di rimangiarsi le parole o di correggersi; non voleva fingere. Era troppo importante. Non aveva fatto tutta quella strada, né sopportato tutto ciò che aveva sopportato per sentirsi dire qualcosa che non fosse la verità.

«È… una domanda alla quale è difficile rispondere,» disse alla fine Abendsen.

«No, non lo è,» ribatté Juliana.

Adesso tutti nella stanza tacevano; fissavano Juliana, in piedi accanto a Caroline e Hawthorne Abendsen.

«Mi dispiace,» disse Abendsen. «Ma non posso risponderle così su due piedi. Questo dovrà accettarlo.»

«Allora perché ha scritto il libro?» gli domandò Juliana.

Indicando con il bicchiere, Abendsen disse: «A che serve quella spilla sul suo vestito? A scacciare i pericolosi spiriti-anima del mondo immutabile? Oppure serve soltanto a tenere insieme il tutto?»

«Perché cambia argomento?» disse Juliana. «Eludendo la mia domanda e facendo un’osservazione inutile come questa? È infantile.»

«Ognuno ha dei… segreti tecnici,» disse Hawthorne Abendsen. «Lei ha i suoi, io i miei. Lei deve leggere il mio libro e accettarlo per quello che è il suo valore nominale, così come io accetto ciò che vedo…» Accennò nuovamente verso di lei con il bicchiere. «Senza chiederle se quello che c’è sotto è autentico, o se è fatto di cavi, stecche e imbottitura di gommapiuma. Non è forse questa, la fiducia nella natura delle persone e in ciò che si vede in generale?» Adesso sembrava irritato, innervosito, notò Juliana, non più l’educato padrone di casa di prima. E Caroline, si accorse con la coda dell’occhio, aveva un’espressione tesa, esasperata; stringeva forte le labbra, e non sorrideva più.