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Sentì che lei stava lottando per trattenere le lacrime. La timidezza e la riluttanza facevano parte del gioco: ma se lei fosse davvero crollata e si fosse messa a piangere, si sarebbero vergognati e risentiti perché rovinava il loro divertimento. L’avrebbero disprezzata per la sua incapacità di stare allo scherzo.

I bambini sanno essere crudeli, si disse Andrew, e molte di quelle ragazze erano soltanto bambine. Sebbene apparisse così giovane, Callista era una donna. Forse non era mai stata bambina: la Torre le aveva rubato l’infanzia… Si preparò a sopportare quello che sarebbe accaduto, sapendo che, per quanto fosse duro per lui, per Callista sarebbe stato anche peggio.

Tra quanto riuscirò a mandarli via, si chiese, prima che lei crolli e pianga, e si rammarichi di piangere? Perché deve sopportare queste assurdità?

Domenic l’afferrò saldamente per le spalle e lo girò in modo che voltasse la schiena a Callista.

— Fa’ attenzione — l’ammonì. — Non abbiamo ancora finito, con te, e le donne non hanno ancora preparato Callista. Non puoi attendere qualche minuto? — E Andrew lasciò che Domenic facesse quello che voleva, preparandosi a prestare cortese attenzione agli scherzi che non capiva. Ma pensò con desiderio al momento in cui lui e Callista sarebbero rimasti soli.

O forse sarebbe stato peggio? Bene, in ogni caso prima doveva sopportare ancora questo. Lasciò che Domenic e gli uomini lo conducessero nella stanza accanto.

CAPITOLO SESTO

Qualche volta, Andrew aveva la sensazione che la gioia di Damon fosse visibile: qualcosa che si poteva scorgere e misurare. In quei momenti, via via che i giorni si allungavano e l’inverno avanzava sulle Colline di Kilghard, Andrew non poteva fare a meno di provare un’amara invidia. Non portava rancore a Damon per la sua felicità: ma avrebbe voluto condividerla.

Anche Ellemir era raggiante. Qualche volta Andrew rabbrividiva pensando che i servitori di Armida, gli estranei, lo stesso Dom Esteban, notavano quella differenza e ne davano la colpa a lui: perché quaranta giorni dopo le nozze Ellemir appariva così felice, mentre di giorno in giorno Callista diventava più pallida e grave, più chiusa e addolorata.

Andrew non era infelice. Frustrato, sì, perché era una tortura essere così vicino a Callista — sopportare gli scherzi e le battute che toccavano, immaginava, a tutti gli sposi novelli della galassia — e essere separato da lei da una linea invisibile che non poteva varcare.

Eppure, se si fossero conosciuti normalmente, ci sarebbe stata una lunga attesa. Continuava a ripetersi che si erano sposati quando si conoscevano da meno di quaranta giorni. E così poteva stare con lei, imparare a conoscerla esteriormente come l’aveva conosciuta nella mente e nello spirito quando lei era nelle mani degli uomini-felini, imprigionata nell’oscurità delle caverne di Corresanti. Allora, quando per una ragione inspiegabile lei non era riuscita a collegarsi con nessuna mente di Darkover eccettuata la sua, i loro pensieri si erano toccati, così profondamente che neppure anni e anni di vita in comune avrebbero potuto creare un legame più stretto. Prima ancora di vederla l’aveva amata, per il suo coraggio di fronte al terrore, per ciò che avevano sopportato insieme.

Adesso stava imparando ad amarla anche per i dettagli esteriori: per la sua grazia, la voce dolce, il fascino lieve e la prontezza di spirito. Lei riusciva perfino a scherzare su quella frustrante separazione, e Andrew non ne era capace. E amava anche la gentilezza con cui trattava tutti: dal padre, invalido e spesso stizzoso, fino al più giovane e goffo dei servitori.

Una cosa cui non era preparato era il fatto di scoprirla così taciturna. Nonostante il suo spirito pronto e la vivacità con cui sapeva ribattere, Callista trovava difficile parlare delle cose che per lei erano importanti. Andrew aveva sperato che avrebbero potuto parlare insieme liberamente dei loro problemi, del suo addestramento nella Torre, del modo in cui le era stato insegnato a non reagire mai con la minima sensibilità sessuale. Ma lei taceva; e le poche volte che Andrew aveva tentato d’indurla a parlarne, Callista aveva distolto la faccia, balbettando e ammutolendo, con gli occhi pieni di lacrime.

Andrew si chiedeva se il ricordo era tanto doloroso, e si sentiva invadere nuovamente dall’indignazione per il modo barbaro in cui era stata deformata la vita di una giovane donna. Sapeva che alla fine lei si sarebbe sentita abbastanza libera da parlarne: non riusciva a pensare ad altro che potesse aiutarla a scrollarsi da dosso quella costrizione. Ma per il momento, poiché non voleva obbligarla a far nulla, neppure a parlare contro la sua volontà, attendeva.

Come Callista aveva previsto, non era facile esserle tanto vicino e tanto lontano. Dormire nella stessa stanza, sebbene non dividessero lo stesso letto; vederla assonnata e bellissima, al mattino, tra le lenzuola, vederla semisvestita, con i capelli sciolti sulle spalle… e tuttavia non osare più di un fuggevole contatto casuale. La sua frustrazione assumeva strane forme. Una volta, mentre lei era in bagno, Andrew, impacciato ma incapace di resistere, aveva preso la sua camicia da notte e se l’era portata appassionatamente alle labbra, aspirando la fragranza del suo corpo e il delicato profumo che lei usava. Si sentiva stordito e vergognoso, come se si fosse abbandonato a una perversione innominabile. Quando lei era tornata non aveva osato guardarla in faccia, comprendendo che la mente dell’uno era aperta a quella dell’altra e che Callista sapeva ciò che lui aveva fatto. Aveva evitato i suoi occhi e si era allontanato in fretta, perché non voleva affrontare il disprezzo — o la pietà — che immaginava sul volto di Callista.

Si era chiesto se lei avrebbe preferito che andasse a dormire altrove; ma quando gliel’aveva domandato, lei aveva risposto timidamente: — No, mi piace averti vicino. — Andrew aveva pensato che forse quell’intimità, anche se asessuata, era un primo passo necessario per il risveglio.

Quaranta giorni dopo le nozze, i venti e le raffiche di neve lasciarono il posto a pesanti nevicate, e Andrew si ritrovò occupatissimo a organizzare la sistemazione dei cavalli e del bestiame, a immagazzinare il foraggio in zone riparate, a ispezionare e approvvigionare i rifugi dei mandriani nelle valli più alte. Stava lontano per giorni e giorni, passando le giornate in sella e le notti in ripari all’aperto o in remote fattorie che facevano parte dell’immensa tenuta.

Allora comprese che Dom Esteban era stato saggio a insistere nel volere la festa nuziale. Sul momento, quando aveva saputo che il matrimonio sarebbe stato legale con uno o due testimoni, si era irritato col suocero perché non aveva acconsentito a celebrarlo in privato. Ma quella notte di scherzi e di battute pesanti aveva fatto di lui uno del luogo: non uno straniero venuto da chissà dove ma il genero di Dom Esteban, l’uomo alle cui nozze avevano assistito. Gli aveva risparmiato anni di sforzi per farsi accettare da loro.

Un mattino si svegliò e udì il secco frusciare della neve contro la finestra, e comprese che era arrivata la prima tempesta dell’inverno. Quel giorno non sarebbe uscito a cavallo. Rimase sdraiato ad ascoltare il vento che gemeva fra i tetti della vecchia casa, riesaminando mentalmente la sistemazione del bestiame affidato alle sue cure. Le fattrici nel pascolo sotto i picchi gemelli (c’era abbastanza mangime nei rifugi frangivento, e c’era un ruscello che — gli aveva detto il vecchio mastro stalliere — non ghiacciava mai completamente) se la sarebbero passata abbastanza bene. Avrebbe dovuto separare dal branco i giovani stalloni (forse si sarebbero azzuffati), ma ormai era troppo tardi.