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Dom Esteban ascoltò sgomento. — Sapevo che c’era sangue cattivo, nel ragazzo — disse. — L’avrei riconosciuto come figlio mio, anni fa, ma sentivo di non potermi fidare completamente di lui. Ho fatto tutto quello che potevo, l’ho tenuto qui per non perderlo d’occhio: ma mi sembrava che avesse qualcosa che non andava.

Damon sospirò: sapeva che quello sfogo del vecchio era ispirato soprattutto da un senso di colpa. Se fosse stato sicuro, riconosciuto, allevato come un figlio Comyn, Dezi non sarebbe stato costretto a puntellare le proprie insicurezze con l’invidia e il dispetto e la gelosia, che l’avevano spinto a tentare di uccidere. Molto più probabilmente, sebbene Damon nascondesse per delicatezza quel pensiero al vecchio, suo suocero non aveva voluto saperne di perpetuare un sordido episodio di ubriachezza o di assumerne la responsabilità. Essere bastardo non era un disonore. Per una donna, mettere al mondo un figlio Comyn era un onore, per lei e per la creatura: eppure l’epiteto più obbrobrioso nella lingua casta significava «figlio di sei padri».

E anche quello si sarebbe potuto evitare, come Damon sapeva, se la ragazza, quando si era scoperta incinta, fosse stata controllata per stabilire chi era stato a fecondarla. Damon pensò, sull’orlo della disperazione, che c’era qualcosa di sbagliato nel modo in cui si servivano dei telepati su Darkover.

Ma ormai era troppo tardi per rimediare. Per ciò che aveva fatto Dezi c’era una sola punizione. Damon lo sapeva, Dom Esteban lo sapeva, e lo sapeva anche Dezi: Damon poteva vederlo chiaramente. Più tardi, quella notte, lo condussero da Damon, legato mani e piedi e mezzo morto di spavento. L’avevano trovato nelle scuderie, mentre stava sellando un cavallo per partire in mezzo alla tormenta. Erano occorse tre delle guardie di Dom Esteban, per sopraffarlo.

Damon pensò che sarebbe stato meglio se Dezi se ne fosse andato. Nella tormenta avrebbe trovato la stessa giustizia, la stessa morte che aveva cercato d’infliggere a Andrew, e sarebbe morto senza mutilazioni. Ma Damon era vincolato dallo stesso giuramento che il ragazzo aveva violato.

Andrew pensava che anche lui avrebbe preferito sfidare la morte nella tempesta di neve piuttosto dell’ira ardente che sentiva avvampare in Damon. Eppure, paradossalmente, provò compassione per Dezi, quando il ragazzo venne fatto entrare, magro e atterrito. Sembrava ancora più giovane, quasi un bambino, e le corde che lo legavano parevano un’ingiustizia e una tortura mostruose.

Perché Damon non lasciava fare a lui?, si chiese Andrew. Avrebbe dato una lezione al ragazzo, e per uno di quell’età sarebbe stato sufficiente. L’aveva detto a Damon, e quello non si era neppure degnato di rispondere. Ma lui aveva compreso.

Non sarebbe mai più stato al sicuro, altrimenti: una coltellata nella schiena, un pensiero omicida… Dezi era un Alton, e un suo pensiero poteva uccidere. Per poco non c’era già riuscito. Dezi non era un bambino. Secondo la legge dei dominii, poteva battersi a duello, riconoscere un figlio, essere ritenuto responsabile di un reato.

Andrew guardò Dezi che tremava, e Damon, e provò un senso di paura. Come tutti gli uomini dalla collera pronta ma passeggera, non aveva esperienza dei lunghi rancori e neppure della rabbia che si rinchiude in se stessa divorando l’uomo infuriato non meno che la vittima della sua ira. Ed era questo che percepiva in Damon, adesso, come il cupo bagliore rosso di una fornace, vagamente visibile intorno a lui. Il nobile Comyn era impassibile, e i suoi occhi apparivano vacui.

— Bene, Dezi, non posso sperare che faciliterai le cose a me o a te stesso, ma ti lascio la possibilità di scelta, anche se è più di quanto meriti. Sei disposto a sintonizzare le risonanze con me e a lasciarmi prendere la tua matrice senza opporti?

Dezi non rispose. I suoi occhi sfolgoravano di sfida rabbiosa, carica di odio. Che spreco, pensò Damon. Era così forte. Rabbrividì, ritraendosi dall’intimità che gli veniva imposta, la meno gradita di tutte, quella fra torturato e aguzzino. Non voglio ucciderlo, e probabilmente dovrò farlo. Misericordia di Avarra, non voglio neppure fargli del male.

Eppure, pensando a ciò che doveva fare, non poteva trattenersi dal tremare. Serrò le dita, in una stretta spasmodica, intorno alla matrice chiusa nell’involucro isolante di seta e di cuoio.

Là, sopra la pulsazione, sopra il fulgido centro del canale nervoso principale. Da quando gli era stata consegnata, a quindici anni, e le luci nell’interno della pietra si erano destate al contatto della sua mente, non era mai stata lontana dal rassicurante tocco delle sue dita. Nessun altro essere umano, eccettuata la sua Custode, Leonie, o per breve tempo, durante gli anni alla Torre, la giovane sotto-Custode Hilary Castamir, l’aveva mai toccata. Il solo pensiero che gli venisse sottratta per sempre lo riempiva di un freddo e nero terrore, peggiore della prospettiva di morire. Sapeva, con ogni fibra del dono dei Ridenow, il laran dell’empatia, ciò che Dezi stava provando in quel momento.

Era l’accecamento. Era l’invalidità. Era la mutilazione…

Era la punizione contenuta nel giuramento di Arilinn per l’uso illegale di una matrice. Ed era ciò che lui doveva fare, secondo la legge.

Dezi si aggrappò a un ultimo brandello di sfida. — Se non è presente una Custode, quello che stai per compiere è un omicidio. L’omicidio è la punizione per il tentato omicidio, dunque?

Damon, sebbene sentisse nelle viscere il terrore di Dezi, mantenne un tono spassionato. — Qualunque tecnico delle matrici appena competente (e io sono un tecnico) può compiere questa parte della missione di una Custode, Dezi. Posso sintonizzare le risonanze con te e toglierti la matrice senza pericolo. Non ti ucciderò. Se non cercherai di opporti, ti sarà più facile.

— No, maledetto! — sibilò Dezi, e Damon si preparò alla tremenda prova che l’attendeva. Poteva ammirare il ragazzo che tentava di fingere un po’ di coraggio e di dignità. Dovette rammentare a se stesso, con uno sforzo, che quel coraggio era una finzione, in un vigliacco che aveva abusato del laran contro un uomo ubriaco e indifeso, che l’aveva fatto ubriacare apposta. Ammirare Dezi adesso, solo perché non crollava e non invocava misericordia (come lui stesso avrebbe fatto, e lo sapeva benissimo), non aveva senso.

Captava ancora le emozioni di Dezi (un empate addestrato, col laran affinato ad Arilinn, non poteva bloccarle), ma si sforzò d’ignorarle, concentrandosi. Il primo passo consisteva nell’orientarsi sulla propria matrice, regolarizzare la respirazione, lasciare che la coscienza si espandesse nel campo magnetico del corpo. Lasciò che le emozioni filtrassero e l’abbandonassero, come doveva fare una Custode, accettandole senza penetrarvi.

Una volta Leonie gli aveva detto che, se fosse stato una donna, avrebbe potuto diventare Custode, ma che, essendo un uomo, era troppo sensibile, e quel lavoro l’avrebbe distrutto. Perché la sensibilità poteva annientare un uomo, se era preziosa per una donna e poteva renderla capace del compito più difficile, quello di Custode? Allora, quelle parole per poco non l’avevano annientato: le aveva interpretate come un attacco alla sua virilità. Adesso riconfermavano in lui la certezza di poter compiere quella parte della missione di una Custode.

Andrew, che stava osservando in un leggero collegamento con Damon, lo rivide come l’aveva visto per un momento la notte prima, mentre vegliava Callista addormentata: un campo turbinante di correnti interconnesse, con centri pulsanti di colori fiochi. Lentamente, incominciò a vedere anche Dezi nello stesso modo, a percepire quello che Damon stava facendo: portava il ritmo della proprie vibrazioni sempre più vicino a quelle di Dezi, modificando i flussi in modo che i loro corpi — e le loro matrici — vibrassero in risonanza perfetta. Questo, lo sapeva, avrebbe permesso a Damon di toccare la matrice di Dezi senza dolore, senza infliggere traumi fisici e nervosi così forti da uccidere.