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Damon rispose: — Amore? Non in quel senso, Leonie. Tuttavia mi è molto cara, e io, che ho così poco coraggio, l’ammiro in chiunque altro più di ogni altra cosa.

— Tu hai poco coraggio, Damon? — Leonie tacque a lungo, e lui vide la sua immagine tremolare come un’onda di calore nel deserto al di là delle Città Aride. — Damon, oh, Damon, dunque ho annientato tutti quelli che amo? Solo adesso mi accorgo di averti distrutto, come ho distrutto Callista…

Il suono di quelle parole echeggiò eterno, come un’eco, nella mente di Damon. Ho annientato tutti quelli che amo? Tutti quelli che amo, tutti quelli… tutti quelli che amo?

— Mi avevi detto che mi allontanavi da Arilinn per il mio bene, che ero troppo sensibile, che quel lavoro mi avrebbe distrutto. — Aveva vissuto per anni con quelle parole, le aveva trangugiate nell’amarezza, odiando se stesso perché viveva per udirle o per ripeterle. Non aveva mai pensato di dubitarne, neppure per un istante: si trattava della parola di una Custode, di un’Hastur.

Presa in trappola, lei gridò: — Cos’avrei potuto dirti? — Poi, in un’esclamazione di angoscia: — C’è qualcosa di sbagliato, di terribilmente sbagliato in tutto il nostro sistema di addestramento degli operatori psi. Come può essere giusto sacrificare tante vite in questo modo? Callista, Hilary, tu! — E aggiunse, con indescrivibile amarezza: — Io.

Se Leonie, pensò amaramente Damon, avesse avuto la sincerità o il coraggio di dirgli la verità, di dirgli «Uno di noi due se ne deve andare, e io sono la Custode e non possono fare a meno di me», allora lui sarebbe stato perduto per Arilinn, sì, ma non sarebbe stato perduto per se stesso.

Ma adesso aveva ritrovato una cosa che aveva smarrito quando era stato allontanato dalla Torre. Era di nuovo integro, e non frantumato come quando Leonie l’aveva scacciato e lui si era creduto debole, inutile, incapace del compito che aveva scelto.

C’era qualcosa di tragicamente sbagliato, nel sistema di addestramento degli operatori psi. E adesso anche Leonie lo sapeva.

Era sconvolto dall’espressione dolorosa negli occhi di Leonie. Lei mormorò: — Cosa vuoi, da me? Siccome è mancato poco che nella mia debolezza io distruggessi la tua vita, l’onore degli Hastur impone dunque che debba assistere senza reagire mentre tu distruggi a tua volta la mia?

Damon chinò la testa. L’amore, la sofferenza che aveva domato, l’amore che aveva creduto estinto anni prima, lo riempivano di pietà. Lì nel sopramondo, dove la passione fisica non poteva rendere pericoloso il gesto o il pensiero, tese le braccia verso Leonie e — come aveva desiderato per tanti anni di dolore — la strinse a sé e la baciò. Non aveva importanza che fossero soltanto le loro immagini a incontrarsi, che nel mondo reale loro fossero separati da dieci giorni di viaggio, e che in quel mondo lei non potesse reagire alla sua passione più di quanto potesse farlo Callista. Tutto ciò non importava. Fu un bacio di amore disperato, quale lui non aveva mai dato e non avrebbe mai dato a una donna vivente. Per un attimo l’immagine di Leonie tremolò, fluì, finché fu di nuovo Leonie più giovane, radiosa, casta, intoccabile, la Leonie di cui Damon aveva agognato la presenza per tanti anni d’angoscia e di solitudine, tormentandosi nel rimorso di quel desiderio.

E poi fu la Leonie di quel tempo, sbiadita, sciupata, devastata dagli anni; e piangeva con tale disperazione da far temere a Damon che gli avrebbe spezzato il cuore. Lei mormorò: — Ora va’, Damon. Ritorna dopo il solstizio d’inverno, e io ti guiderò dove potrai cercare, nel tempo, il destino di Callista e il tuo. Ma adesso, se hai ancora pietà, vattene!

Il sopramondo tremò come scosso da un uragano, svanì nel grigiore, e Damon si ritrovò ad Armida. Callista lo guardava sgomenta e costernata. Ellemir mormorò: — Damon, amor mio, perché piangi? — Ma Damon sapeva che non avrebbe mai potuto rispondere.

Era inutile, per Cassilda e per tutti gli dèi, era inutile tutta quella sofferenza, la sua e di Callista. Della povera piccola Hilary. Di Leonie. E solo la misericordia di Avarra sapeva quante vite, quante telepati nelle Torri dei dominii erano condannati a soffrire…

Sarebbe stato meglio per i Comyn, meglio per tutti, pensò, disperato, se nelle epoche del caos tutti i figli di Hastur e di Cassilda avessero annientato se stessi e le loro pietre stellari! Ma doveva esserci una fine, una fine per quella sofferenza!

Si aggrappò disperatamente a Ellemir, e tese le braccia per stringere le mani di Andrew e di Callista. Non bastava. Niente, mai, sarebbe bastato a cancellare la sua consapevolezza di quell’infelicità. Ma finché erano intorno a lui, vicini, poteva sopportarlo. Per ora. Forse.

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Dom Esteban aveva chiesto loro di rimandare l’operazione psi fino a quando fosse passato il solstizio d’inverno e fossero stati riparati i danni causati dalla tempesta di neve. Damon era lieto di quel rinvio, sebbene fosse tormentato dall’apprensione e dalla necessità di farla finita. Sapeva che molto sarebbe dipeso dal clima. Se c’era un’altra tempesta, la festa del solstizio d’inverno sarebbe stata celebrata in compagnia della sola gente di casa; ma se il tempo era buono, tutti quelli che abitavano a meno di un giorno di viaggio sarebbero venuti lì, e molti avrebbero trascorso la notte ad Armida. La vigilia del solstizio d’inverno spuntò rossa e mite, e Damon vide che Dom Esteban era lieto di quella prospettiva. Si vergognò della propria riluttanza. Un’occasione che spezzava l’isolamento invernale era molto importante, tra le Colline di Kilghard, soprattutto per un vecchio invalido relegato su una poltrona a rotelle. A colazione, Ellemir parlò allegramente dei preparativi per la festa, tutta presa dallo spirito di quella vacanza.

— Metterò al lavoro le ragazze, in cucina, per preparare i dolci, e uno degli uomini dovrà andare nella Valle Meridionale a chiedere al vecchio Yashri e ai suoi figli di venire a suonare per il ballo. E se molti resteranno qui per la notte, dovremo far aprire e arieggiare le stanze degli ospiti. E immagino che la cappella sarà scandalosamente sporca e polverosa. Non ci vado più da quando… — S’interruppe e distolse gli occhi, e subito Callista intervenne: — Penserò io alla cappella, Elli, ma dobbiamo accendere il fuoco? — Guardò suo padre, e il vecchio rispose: — Io direi che è una sciocchezza, ai giorni nostri, accendere il fuoco del sole. — Fissò Andrew, inarcando le sopracciglia, come se — pensò Damon — si aspettasse dal giovane un’espressione irriverente. Ma Andrew disse: — Sembra che sia uno dei costumi universali dell’umanità, su molti mondi, festeggiare il solstizio d’inverno, il ritorno del sole dopo la notte più lunga, e il solstizio d’estate.

Damon non si era mai ritenuto un sentimentale: si era sempre sforzato di lasciare sepolto il passato, eppure adesso ricordava tutti gli inverni che aveva trascorso ad Armida, come amico di Coryn. Stava sempre accanto a Coryn, alla festa del solstizio d’inverno, con le bambine intorno a loro, e pensava che se mai avesse avuto una famiglia tutta sua avrebbe conservato quella consuetudine. Suo suocero captò quel ricordo e alzò gli occhi, sorridendogli. La sua voce era burbera: — Credevo che voi giovani la giudicaste un’assurdità pagana da dimenticare, ma se qualcuno è disposto a portarmi in cortile potremo farlo: c’è abbastanza sole. Damon, non posso andare a scegliere i vini per la festa, quindi ecco la chiave delle cantine. Rhodri dice che il vino di quest’anno è buono, anche se io non ho potuto dirigerne la preparazione.

Andrew stava ritornando dall’ispezione quotidiana ai cavalli da sella, quando Callista lo fermò. — Vieni ad aiutarmi nella cappella. Non possono farlo i servitori, ma soltanto quelli che sono legati al dominio per nascita o per matrimonio. E tu non ci sei mai stato.