"Voglio vedere se cacceranno in cantina anche le pecore, - rise tra sé Paolo. - E il cane".
Ma le forze armate avevano ben altro da pensare. Avevano voltato le spalle al Trullo, e non avevano occhi che per il Monte Cucco e per la "cosa" che lo copriva da un capo all'altro, come un enorme cappello. Le pecore venivano avanti belando, spalla a spalla, muso a muso. Se qualcuna si staccava dalle compagne per brucare un ciuffo d'erba ai bordi della strada, il cane si affrettava a farla rientrare nel gregge, con una piccola corsa. Zorro, che per tutta la giornata se n'era rimasto a sonnecchiare sul balcone, abbaiò per salutare il suo simile, il quale, tutto preso dal lavoro, nemmeno gli rispose.
- Prendi le tue palette, - disse Paolo con un'improvvisa decisione, - quelle che adoperavi l'anno scorso al mare. Io prenderò la pila.
- Che cosa vuoi fare? - domandò Rita, incerta.
- Voglio vincere una scommessa. Ma se hai paura, non venire.
- Certo che vengo, - protestò Rita.
- Allora, sta' attenta: ti ricordi dell'astuto Ulisse?
- Vuoi che non mi ricordi di nostro padre?
- Stupida, parlo di Ulisse, quello vero. Ti ho raccontato la sua storia tante volte. Come fece per uscire dalla grotta di Polifemo?
- Si aggrappò sotto la pancia di una pecora. Oh... e tu pensi che noi?.. Guarda però che io sotto la pancia di una pecora non mi ci metto.
- Non ce ne sarà bisogno. Andiamo.
- Lasciamo un biglietto alla mamma?
La sora Cecilia, bloccata dall'allarme in casa di una malata, prima di scendere in cantina, era riuscita a telefonare ai suoi rampolli, per raccomandare loro di rifugiarsi sotto la protezione di una vicina. Lasciarle un biglietto, era come confessare che non le avevano obbedito.
- Torneremo a casa prima di lei, - disse Paolo. Rita non ne pareva molto convinta, ma seguì il fratello senza discutere. Il capo era lui, adesso. Lanciò un'occhiata a Zorro che continuava ad abbaiare alle pecore, prese le palette e uscì dietro a Paolo sulla scala.
Non c'era nessuno per fermarli, sul portone, nessuno sulla strada per ricacciarli al chiuso.
Paolo lasciò sfilare il gregge e gli si accodò, imitato dalla sorella. Il cane brontolò con sospetto, ma dovette rincorrere un agnello che non stava in fila. I pastori non si voltarono. Camminavano tranquillamente verso la collina, forse non si erano nemmeno accorti che quella non era una sera come le altre, che un reparto di pompieri presidiava il loro sentiero abituale, che in cima al Monte Cucco c'era qualcosa che stava facendo trattenere il respiro al mondo intero.
- Dove andate voi? - gridò ad un tratto un vigile, che aveva sentito alle proprie spalle il pesticciare del gregge.
- Buona sera, sor tenente. Che ci volete fare? Siamo pastori, andiamo dove vanno le pecore.
- Tornate indietro, indietro!
Anche gli altri vigili si erano voltati e scoppiarono a ridere bonariamente. Quello fu il loro errore, come spiegò più tardi Paolo a Rita. Perché le pecore non capivano gli scherzi. Esse capivano soltanto che a venti metri dal loro muso c'era la loro collina, il tranquillo recinto che le attendeva per la notte. Avrebbero obbedito ai pastori. Ma dei due, uno era un ragazzotto un po' tonto, l'altro era un po' sordo: prima che i vigili potessero fargli capire che era proibito salire sulla collina, le pecore, spaventate e testarde insieme, spingendosi, urtandosi, belando disperatamente, si aprirono un varco tra le file degli assedianti, in una nuvola di polvere.
- Presto, - ordinò Paolo a Rita, sottovoce, - fa' come me.
Approfittando della confusione, si gettò carponi nel gregge. Non ebbe altro da fare, perché al resto pensarono le pecore. Esse lo spinsero dall'altra parte della strada, lo spinsero su, su per la scarpata, lui e Rita, che dopo il primo attimo di paura aveva preso confidenza con quel modo di camminare, e si divertiva un mondo a restituire zuccate alle pecore, nei fianchi tiepidi e lanosi.
"Vediamo chi ha la capoccia più dura", pensava arrampicandosi a quattro gambe. I sassi e gli sterpi le graffiavano e pungevano le mani e le ginocchia, e qualche lagrima le scendeva per conto suo lungo le guance, ma essa non sentiva dolore.
- Di qua! - sentì che Paolo la chiamava. C'era, appena più in alto del recinto, il rudere di un muricciolo, e Paolo già vi si era acquattato, come dietro il riparo di una trincea. Quattro sassi appena, ma bastarono a nasconderli entrambi.
- Ora non ci possono più vedere, - disse Paolo. - Saliremo per quel canalone.
Il "canalone" era una crepa nel fianco della collina, scavata dalla pioggia o da una frana.
- Vuoi proprio andarci? - domandò Rita con un sussurro, guardando in su.
Venti metri sopra le loro teste nereggiava l'orlo della "cosa". Ora
che c'era tanto vicina, Rita non aveva più il coraggio di chiamarla dentro di sé la "torta": d'improvviso, era ridiventata un oggetto misterioso, la "Cosa", con una preoccupante maiuscola davanti.
- Se vuoi, aspettami qui.
Paolo era sicuro e deciso come Colombo nel momento di metter piede sul Nuovo Continente. Rita inghiottì la paura:
- Va bene, vengo.
Una breve e silenziosa arrampicata li portò a pochi passi dalla "Cosa". Visto da vicino il suo fianco aveva l'aspetto minaccioso di una inespugnabile muraglia.
- Andrò io per primo, - annunciò Paolo. - Quando ti farò un segnale sali su. Non ti spaventare se sentirai delle grida.
- O Dio, e se mi sparano?
- Su, su, non ti sparerà nessuno.
- Aspetta un momento. Prendi la paletta: se è una torta, ci fai un buco e ci nascondiamo lì dentro.
Paolo prese la paletta di malumore. Gli pareva, prendendola, di rinunciare alle sue convinzioni. Si sentiva anche un po' ridicolo, ad affrontare con una paletta da spiaggia i visitatori provenienti dallo spazio.
"Quelli, - pensava, - avranno come minimo il raggio mortale, il disintegratore, il diavolo a quattro".
Però prese la paletta. E fece bene, perché ad aspettarlo, in cima al Monte Cucco, non c'erano né marziani né venusiani pronti a schiacciarlo come una formica; e non c'era neanche un'astronave, almeno del genere che si poteva figurare Paolo, in base alla sua esperienza di film di fantascienza. C'era una torta, ecco.
Non c'era bisogno di sbatterci il naso per sentirne il profumo: anzi, i profumi, cento e cento e cento profumi diversi e inebrianti. Paolo affondò la paletta nella parete e in un momento ci scavò una nicchia abbastanza larga per accogliere lui e la sorella.
Rita, che tendeva l'orecchio in attesa del richiamo, si sentì invece piovere addosso grossi pezzi di marzapane e di pasta frolla, una cascatella di uvette dolci, un ruscelletto di rosolio. Per non perdere tempo, cominciò ad assaggiare quel che le veniva a tiro. Ed era tanto assorta nella sua merendina che Paolo dovette chiamarla tre volte per ottenere risposta.
- Vengo, vengo, - rispose a bocca piena.
E ben presto si accomodò a sua volta nella nicchia profumata. Paolo si affrettò a murarne l'ingresso con un blocco di cedro candito, lasciando solo una finestrella perché passassero l'aria e la luce.
- Sei convinto, adesso? - domandò Rita, tra un boccone e l'altro.
- Va bene, hai vinto la scommessa. E' una pizza. Ti pagherò.
- Certo, che pagherai. Le scommesse non si fanno mica per sprecare il fiato.
- Va bene, te l'ho detto. Ma adesso lasciami lavorare. Mettiti da questa parte, comincerò a scavare una galleria. Voglio esplorare tutta la torta. Non sono mica venuto fin quassù per mangiare, io.
- Ecco come sei, tu. Abbiamo almeno mezzo metro di cioccolato sotto i piedi, ci troviamo in una grotta di pastafrolla, più al sicuro di Pinocchio nel ventre del pescecane, e tu pensi a esplorare.
- Tu mangia pure con comodo. A scavare penso io.