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- Be', - concluse Rita, - ti darò una mano. Per mangiare non mi occorrono tutt'e due.

Sotto i colpi delle palette la torta si apriva docilmente, come la giungla sotto il coltello dell'esploratore. I due fratelli attraversarono senza difficoltà diversi filoni di crema, di panna, di pasta mandorlata. Scavalcarono ruscelli di zabajone, affondarono fino al ginocchio in pozzanghere di sciroppo al ribes, illuminarono con la loro pila piccole grotte scavate nelle viscere della torta da correnti sotterranee di liquore, allo stesso modo che i fiumi del Carso, sprofondando sotto le montagne, ci scavano caverne e acquedotti naturali.

Di quando in quando, ciliege candite più grosse che paracarri sbarravano loro il passo. Paolo, che la furia della scoperta spingeva avanti come un motorino, si contentava di aggirarle: Rita invece se ne riempiva la bocca. Con una mano contribuiva distrattamente al progresso della galleria: con l'altra esplorava le pareti di marrons glacés, si portava alla bocca una noce farcita grossa come una zucca, faceva l'inventario delle strane pietre su cui camminava, che erano per lo più mandorle tostate e noccioline abbrustolite.

- Su, su, lavora, - la esortava di quando in quando Paolo. - No, non di là: scava in questa direzione, dobbiamo seguire il raggio se vogliamo arrivare al centro.

- Peccato. Sento qui a destra un freschetto... Ci dev'essere del gelato, in questa torta.

- Peccato che non abbiamo portato la bussola per orientarci.

- Cos'importa? Qui è torta dappertutto: a nord, a sud, a est e a dovest.

- Si dice ovest, non dovest. Te l'avrò insegnato dieci volte.

- Eh, lo so che sei bravo. Però la scommessa l'ho vinta io. Uhm... in questo punto hanno messo troppo liquore. Senti, non ci ubriacheremo mica? Ahi! Adesso piove... Fammi provare... Volevo ben dire: non è acqua, è marsala. Aiuto, si sprofonda! Ah, no, meno male. Stiamo camminando sui savoiardi. Sotto i piedi, a dire la verità, io preferisco i croccanti: sono più solidi.

Paolo non cessava un attimo di spalare. Senza aprire bocca catalogava mentalmente i materiali che venivano a contatto con la sua paletta: "Marmellata di lamponi... uva sultanina... crema... gelato di pistacchio..."

Improvvisamente si fermò e strinse il braccio a Rita in segno di allarme.

- Spegni la pila, - le ordinò in un soffio.

- Ci si vede lo stesso. Come mai?

- Zitta: guarda anche tu.

Nella parete di avanzamento la paletta aveva aperto un pertugio, dal quale usciva un tenue raggio di luce. Rita guardò... C'era una grotta, di là... E in mezzo alla grotta, seduto per terra, un uomo scriveva febbrilmente su alcuni fogli che teneva appoggiati alle ginocchia, alla luce di una torcia elettrica infilata in un arancio candito.

- Ma quello è Geppetto! - bisbigliò Rita.

- Sì, e tu sei la Fata dai capelli turchini... Non dire sciocchezze. Lasciami riflettere.

Trascorsero un paio di minuti, durante i quali Paolo e Rita si alternarono in osservazione davanti al pertugio.

- Hai pensato?

- Non ancora.

- Dimmi almeno cosa devi pensare, così posso pensare anch'io. Ad aspettare mi annoio tanto.

- Chiamiamolo pure "il signor Geppetto", tanto per dargli un nome, - rispose Paolo. - Ma chi è? Che ci fa qui dentro? Come c'è venuto?

- Non so. Forse ha fatto come noi. E poi, vedi, scrive: sarà uno scrittore. Un giornalista.

- Bene, ora hai qualcosa a cui pensare. Ma sta' zitta, prima che si accorga di noi.

Rita si chetò e cominciò a leccare la parete di gelato. Ma il silenzio scelse proprio quell'attimo per scoppiare come una bomba.

- E' Zorro! - esclamò Rita. - Ha fiutato le nostre tracce e ci ha seguiti.

- E ora ci rovina tutto, - disse Paolo. Anche lui, purtroppo, ad alta voce: l'eccitazione del momento gli aveva fatto dimenticare le regole della prudenza. Mentre Zorro si precipitava tra le loro gambe abbaiando festosamente, Paolo rimise l'occhio al pertugio e fremette: il misterioso "signor Geppetto" era balzato in piedi, allarmato, e tendeva l'orecchio.

- Buono, Zorro, - bisbigliò Paolo.

Il cane si accucciò, scodinzolando.

- Il "signor Geppetto" ci ha sentiti, - informò Paolo. - Fa il giro della sua grotta, orecchiando alle pareti...

- Mi sembra il momento di tagliare la corda.

- Aspetta. Voglio scoprire...

- Sì, così lui scopre noi, e siamo fritti.

- Zitta. E' qui.

Il misterioso abitatore della torta, esplorando le pareti della sua grotta, era giunto presso il pertugio scavato dalla paletta di Paolo qualche minuto prima. Paolo poté studiarselo da vicino. Era un uomo quasi vecchio, quasi calvo, quasi curvo: tutto un po' "quasi", tranne gli occhiali, che non erano "quasi" spessi, ma spessi del tutto, due lenti della grossezza di un dito, dietro le quali scintillavano due occhi neri, mobilissimi. Vestiva una lunga palandrana grigia, qualcosa fra il camice di un magazziniere e il grembiule di un droghiere. Dal colletto sbottonato e ciancicato gli usciva un brandello storto di cravatta.

- Scappiamo, Paolo.

Ma Paolo era come inchiodato al pertugio. Non se ne staccò nemmeno quando il "signor Geppetto" vi incollò a sua volta gli occhiali. Di qui e di là dalla parete (gelato di pistacchio, a quanto sappiamo) quattro occhi curiosi si fissarono nelle rispettive pupille. Paolo si sentì un brivido freddo corrergli la schiena, ma non si mosse. Il misterioso e certamente falso Geppetto non dovette provare nemmeno un briciolo di paura, perché gridò qualcosa con voce irritata: - Squak squok karapak pik!

Questi furono, all'incirca, i suoni che colpirono le orecchie di Paolo e di Rita. E quelle di Zorro che balzò sulle quattro zampe e riprese ad abbaiare.

- Brek brok karabrok puk! - gridava il vecchio. E mentre gridava cacciò le mani nel pertugio per allargarlo. Ne fece in pochi attimi un finestrino e vi si affacciò, continuando a gracidare nella sua lingua incomprensibile.

- Presto, scappiamo! - gridò Paolo. Fece qualche passo all'indietro, senza perdere di vista il volto inquadrato nella parete verdastra, illuminato dalla pila curiosa e tremante di Rita. E allora vide, o gli parve di vedere, la luce di un sorriso disegnarsi dietro, sotto e tutto intorno agli occhiali... Poi, via, a gambe, a quattro gambe, lui e Rita, a quattro zampe e una coda ritta per aria Zorro, via tutti e tre a rompicollo, per la lunga galleria, pesticciando affannosamente nello zabajone, nel rosolio, nelle paludi di marmellata, urtando nelle pareti di panna e di pasta frolla.

Ecco un chiarore, laggiù... E' notte, fuori, ma tutti i riflettori sono accesi e puntati sulla torta... Paolo riflette disperatamente, mentre allarga l'apertura per uscire... Poi getta la pila giù per la scarpata e grida:

- Prendi, Zorro.

Il cane non se lo fa dire: si getta abbaiando all'aperto, si lancia giù per la scarpata, per recuperare la pila, fedele al vecchio gioco cui Paolo e Rita l'hanno addestrato... Tutti i riflettori lo inseguono, sciabolando sulla collina. In basso scoppia una confusione infernale...

Ancora una volta le idee di Paolo hanno funzionato. I due fratelli si gettano giù, nella zona che i fari impazziti hanno lasciato al buio... rotolano tra i piedi dei vigili del fuoco, che non li hanno visti scendere e li ricacciano a urlacci:

- Indietro voi, dove andate?

- ...In salvo!

- O mamma, - esclamò ad un tratto Rita. - Ho perso una scarpa.

- Dove?

- Non so, credo nello scendere. Torno a riprenderla.

- Brava, così ti acchiappano e salta fuori tutta la storia.

- E la torta se la mangiano loro. Hai ragione, è meglio sacrificare la scarpa.

La mamma non era ancora rincasata. Arrivò una mezz'ora più tardi, quando Diomede, visto che i marziani non mostravano cattive intenzioni, permise agli abitanti del Trullo di uscire dalle cantine.

- Siete stati buoni? Avete avuto paura?

- Sì, mamma, - rispose Paolo alla prima domanda.