«Non so se è un taglio. Passandogli sopra, la ruota deve aver tirato la pelle. Potrebbe essere uno strappo, più che un taglio» osserva Kay Scarpetta indicando la ferita profonda e slabbrata sulle guance e sulla radice del naso. «Per stabilirlo, basta che controlli al microscopio se ci sono tracce di ruggine e grasso e le condizioni dei tessuti. Io, fossi in te, lo farei.»
«Sì, certo.» Fielding alza gli occhi dal modulo che sta riempiendo, relativo agli indumenti e agli effetti personali del morto.
«Trattandosi di un infortunio sul lavoro, immagino che la famiglia chiederà un risarcimento» continua Kay. «Di solito funziona così.»
«Sì, certo. È morto in un brutto posto, poveraccio.»
I guanti di lattice di Fielding si sporcano di sangue appena tocca la ferita sul volto dell’uomo, e dal naso quasi staccato cola un altro rivolo rosso ancora tiepido. Fielding prende un foglio e comincia a disegnare la ferita su un diagramma. Si avvicina alla faccia di Whitby e lo osserva da vicino, protetto dalla mascherina. «A occhio nudo non vedo né ruggine né grasso» dice. «Ma questo non significa che non ce ne siano.»
«Sì, anch’io farei un tampone» dice Kay, capendolo al volo. «Così lo mandi in laboratorio e sei in una botte di ferro, nel caso qualcuno dica che l’ha investito un collega, che l’hanno buttato giù dal mezzo o gli hanno dato un colpo in testa prima di investirlo. Non si sa mai.»
«Sì, certo. Quando ci sono di mezzo i soldi…»
«Non è solo quello» risponde lei. «Gli avvocati lo traducono in denaro, ma prima di tutto c’è il dolore, con lo shock, il lutto, il desiderio di trovare un capro espiatorio… A nessuno piace pensare che una persona cara è morta per stupidità o imprudenza, sentirsi dire che uno più esperto non si sarebbe messo davanti alla ruota del suo mezzo a trafficare con l’accensione con la marcia ingranata, ignorando le precauzioni più elementari. Perché quando uno si lascia prendere dalla fretta e dal nervosismo, non pensa. Ma è nella natura umana non voler ammettere che una persona a cui volevamo bene si è ammazzata con le sue stesse mani, consapevolmente o meno. Sai come la penso.»
Fielding ha iniziato la sua carriera professionale con lei. È stata lei a insegnargli a controllare meticolosamente il cadavere e il luogo del ritrovamento. Kay ricorda con nostalgia quanto gli piaceva il suo lavoro e come era avido di sapere; la seguiva in tribunale ogni volta che poteva per ascoltarla, oppure rivedeva i casi con lei, per sentire il suo parere. Adesso invece è esaurito, non sta bene, e lei non dirige più l’Istituto di medicina legale della Virginia.
In questo momento, però, stanno di nuovo lavorando insieme.
«Sì, avrei proprio dovuto telefonarti» gli dice, slacciando la cintura di pelle di Whitby e sbottonandogli i pantaloni verdi. «Poi guardiamo insieme Gilly Paulsson.»
«Sì, certo» risponde Fielding. Kay non ricordava che dicesse così spesso: “Sì, certo”, un tempo.
7
Henri Walden ha un paio di pantofole di camoscio imbottite che non fanno rumore sulla moquette. Si avvicina silenziosamente alla poltrona di pelle di fronte al divano.
«Ho fatto la doccia» dice a Benton, sedendosi con le gambe piegate sotto il sedere.
Benton capisce che lo fa apposta per fargli vedere le cosce nude e si impone di non guardare.
«Cosa te ne importa?» gli chiede Henri. Glielo chiede tutte le mattine, da quando è lì.
«Ti fa sentire meglio, no?»
La ragazza annuisce, fissandolo con occhi da cobra.
«Le piccole cose sono importanti. Mangiare, dormire, lavarsi, fare moto… sono tutte cose che servono a riprendere il controllo sulla propria vita.»
«Ho sentito che parlavi al telefono con qualcuno» insiste Henri.
«È un problema» risponde lui guardandola oltre gli occhiali da presbite, con il blocco per appunti in grembo su cui ha aggiunto soltanto “Ferrari nera”, “senza permesso”, “seguita fino al campo?” e “punto di contatto = Ferrari nera”.
Poi aggiunge: «Le conversazioni private devono restare private. Dobbiamo rispettare i patti, Henri. Te li ricordi?».
La ragazza si toglie le pantofole e le lascia cadere sulla moquette. Posa i piedi delicati sul cuscino della poltrona e, quando si china a guardarseli, le si apre leggermente la vestaglia sul petto. «No» risponde a voce bassissima, scuotendo la testa.
«Secondo me, invece, te li ricordi benissimo, Henri.» Benton la chiama spesso per nome per ricordarle chi è e personalizzare ciò che è stato spersonalizzato, per certi versi irrimediabilmente. «Rispetto reciproco, ricordi?»
La ragazza si china ulteriormente per giocherellare con un’unghia. Si guarda le dita dei piedi, offrendo a Benton la propria nudità.
«Avere rispetto reciproco significa lasciare all’altro la propria privacy. E non provocarlo» aggiunge lui in tono pacato. «Abbiamo stabilito dei limiti. Provocare l’altro vuol dire oltrepassarli.»
Henri si chiude la vestaglia con la mano libera, continuando a osservarsi e ad accarezzarsi le dita dei piedi. «Mi sono appena svegliata» dice, come per spiegare il proprio esibizionismo.
«Grazie, Henri.» È importante che Henri si convinca che Benton non vuole avere rapporti sessuali con lei, nemmeno con la fantasia. «E comunque non ti sei appena svegliata. Ti sei alzata, sei venuta qui, abbiamo parlato e poi ti sei fatta la doccia.»
«Non mi chiamo Henri.»
«Come vuoi che ti chiami?»
«Non voglio.»
«Hai due nomi» dice Benton. «Il tuo nome di battesimo e quello che ti sei scelta quando hai cominciato a recitare. Lo usi tuttora, no?»
«Okay, allora chiamami Henri» replica lei, guardandosi le dita dei piedi.
«D’accordo. Henri.»
La ragazza annuisce, sempre osservandosi i piedi. «E lei come si chiama?»
Benton sa a chi si riferisce, ma evita di rispondere.
«Ci vai a letto. Lucy mi ha raccontato tutto.» Sottolinea il tutto.
Lui si irrita, ma non lo dà a vedere. Non crede proprio che Lucy le abbia raccontato la sua storia d’amore con Kay. No, ne è certo. Henri lo sta provocando, lo sta di nuovo mettendo alla prova. Sta di nuovo cercando di andare oltre il limite.
«Come mai non è qui con te?» gli domanda. «Non fate le vacanze insieme? Tanti dopo un po’ smettono di scopare. È uno dei motivi per cui non voglio relazioni lunghe. Perché poi non si scopa più. Dopo sei mesi, stop, chiuso. La tua donna non è venuta perché ci sono io, vero?» Lo fissa.
«Sì, è vero» risponde lui. «Non è venuta perché ci sei tu.»
«Chissà come si è arrabbiata, quando le hai detto che non poteva venire.»
«È molto comprensiva» replica Benton, non del tutto sincero.
Kay è stata comprensiva, ma è rimasta male quando lui, dopo aver sentito Lucy nel panico più totale, le ha telefonato per chiederle di rimandare la partenza. «Devo occuparmi di un caso molto urgente» le ha spiegato.
“Allora vai via da Aspen?” gli ha chiesto Kay.
“Non ti posso dire niente” le ha risposto. Per quel che ne sa, Kay potrebbe essere convinta che lui sia ripartito.
“Non è giusto, Benton” gli ha detto. “Anch’io lavoro, ma mi sono tenuta libera queste due settimane per trascorrerle con te.”
“Mi dispiace, Kay” le ha risposto Benton. “Ti prego, cerca di capire. Ti spiegherò.”
“Proprio adesso… È il momento peggiore. Avevamo bisogno di queste due settimane insieme.”
È vero, avevano bisogno di quelle due settimane insieme. Invece lui è lì con Henri. «Vuoi raccontarmi i sogni che hai fatto? Te li ricordi?» le chiede.
La ragazza si sta accarezzando l’alluce del piede sinistro, come se le facesse male. Aggrotta la fronte. Benton si alza e, con nonchalance, prende la Glock e attraversa il salotto per andare in cucina. Apre uno sportello e sistema la pistola sullo scaffale più in alto. Poi prende due tazze e vi versa il caffè. Sia lui che Henri lo prendono nero e senza zucchero.