«Forse è un po’ forte. Ne faccio dell’altro, se vuoi.» Le posa la tazza sul tavolino e torna a sedersi sul divano. «Due notti fa hai sognato un mostro. Veramente l’hai definito “la bestia”.» La guarda negli occhi tristi. «Hai sognato di nuovo la bestia?»
Henri non gli risponde. Ha cambiato umore, da quando si è svegliata. Deve esserle successo qualcosa mentre faceva la doccia. Benton si ripropone di indagare in seguito.
«Non devi parlarmene per forza, Henri. Se non vuoi, non importa. Ma più cose mi racconti di questa bestia, più è probabile che scopriamo chi è. E tu vuoi che io ti aiuti a scoprirlo, no?»
«Con chi parlavi prima?» gli domanda in tono sommesso, con voce da bambina. Ma non è più una bambina. È tutto fuorché innocente. «Parlavate di me» insiste. Le si allenta la cintura della vestaglia, lasciando intravedere la pelle nuda.
«No, non parlavamo di te. Nessuno sa che sei qui, a parte Lucy e Rudy. Mi credi, Henri?» Smette di parlare e la guarda. «Credi a Lucy?»
Lo sguardo di Henri si infiamma, nel sentire nominare Lucy.
«Io penso che tu creda sia a me che a lei» dice Benton con calma. Ha le gambe accavallate e le mani giunte posate sul ventre. «Per favore, Henri, copriti.»
La ragazza si stringe la cintura in vita, coprendosi le gambe. Benton l’ha già vista nuda, ma cerca di non pensarci. Ha visto le fotografie e non intende rivederle, a meno che non sia assolutamente indispensabile mostrarle a qualche esperto o alla stessa Henri, quando e se sarà mai pronta per vederle. Per il momento la ragazza ha rimosso l’accaduto, più o meno consapevolmente, e assume comportamenti che una persona più debole e meno esperta di Benton troverebbe esasperanti. I suoi tentativi di provocarlo sessualmente non sono dovuti soltanto al transfert, ma sono la chiara manifestazione di un narcisismo esasperato, di un desiderio di dominare, controllare, sminuire e distruggere chiunque dimostri interesse nei suoi confronti. Henri si odia ed è arrabbiata con se stessa.
«Perché Lucy mi ha mandato via?» gli domanda.
«Dimmelo tu. Dimmi perché sei venuta qui.»
«Perché…» Si asciuga gli occhi nella manica della vestaglia. «Per la bestia.»
Benton la guarda fisso, seduto sul divano con gli appunti in grembo, in maniera che lei non possa leggerli, né strapparglieli di mano. Non vuole costringerla a parlare: deve essere paziente, incredibilmente paziente, come un cacciatore appostato nel bosco in attesa della preda, immobile e con il fiato sospeso.
«È entrata in casa. Non mi ricordo.»
Benton si limita a guardarla in silenzio.
«L’ha fatta entrare Lucy» continua Henri.
Benton non vuole fare pressioni, ma neanche lasciarla mentire impunemente. «No. Non è stata Lucy a farla entrare in casa» la corregge. «Non l’ha lasciata entrare nessuno. È entrata da sola perché la porta di servizio non era stata chiusa a chiave e l’allarme era disinserito. Ne abbiamo già parlato, Henri. Ti ricordi perché la porta non era chiusa a chiave e l’allarme era disinserito?»
La ragazza si guarda le dita dei piedi, immobile.
«L’abbiamo già chiarito» insiste Benton.
«Avevo l’influenza» risponde Henri continuando a guardarsi le dita. «Non stavo bene ed ero rimasta a casa. Avevo i brividi e sono uscita al sole; mi sono dimenticata di chiudere a chiave la porta e di inserire di nuovo l’allarme. Avevo la febbre, me lo sono scordata. Lucy ha dato la colpa a me.»
Benton beve un sorso di caffè. È già freddo. Il caffè diventa subito freddo in montagna. «Ti ha detto che è colpa tua?»
«No, ma lo pensa.» Henri guarda verso la finestra. «Mi dà la colpa di tutto.»
«A me non ha mai detto di pensare che fosse colpa tua» ribatte Benton. «Mi stavi parlando dei tuoi sogni.» Ritorna al discorso di prima. «Dei sogni che hai fatto stanotte.»
Henri sbatte le ciglia e si massaggia l’alluce.
«Ti fa male?»
La ragazza annuisce.
«Mi spiace. Vuoi metterci una pomata?»
Henri scuote la testa. «Non servirebbe a niente.»
Non sta parlando della frattura all’alluce destro, ma la associa al fatto di trovarsi lì, a migliaia di chilometri da Pampano Beach, in Florida, dove ha rischiato di morire, e le passa una luce furibonda negli occhi.
«Camminavo su un sentiero» inizia a raccontare. «In cima a una scogliera. Una scogliera ripidissima. C’erano delle fenditure nella roccia e io, non so come, a un certo punto cercavo di passarci attraverso e rimanevo incastrata.» Trattiene il fiato e si toglie una ciocca bionda dagli occhi con mano tremante. «Ero incastrata e non riuscivo a muovermi, e neanche a respirare. Non riuscivo a liberarmi. E nessuno poteva salvarmi. Mi è tornato in mente mentre ero sotto la doccia. Mi sono sentita l’acqua sulla faccia e ho trattenuto il respiro. E a quel punto mi è tornato in mente il sogno.»
«C’era qualcuno? Qualcuno che cercava di salvarti?» Benton non reagisce al terrore di Henri, né cerca di capire se è vero o simulato. Non è affatto chiaro. Con lei, non c’è mai niente di chiaro.
Henri è immobile sulla poltrona, fa fatica a respirare.
«Hai detto che nessuno poteva salvarti» puntualizza Benton con calma, con il tono pacato del terapeuta. «C’era qualcuno?»
«Non lo so.»
Benton aspetta. Se Henri continuerà a respirare con tanta fatica, dovrà fare qualcosa, ma per ora aspetta paziente.
«Non mi ricordo. Non so perché, ma per un attimo ho avuto la sensazione che… voglio dire, nel sogno ho pensato che forse qualcuno poteva spezzare la roccia, magari con una piccozza. E poi ho pensato che no, era impossibile, la roccia era troppo dura. Non possono liberarmi. Nessuno può salvarmi. Muoio. Stavo per morire, nel sogno, lo sapevo. A un certo punto evidentemente non ce l’ho più fatta e mi sono svegliata.» Il suo racconto tentennante si interrompe di colpo, come il sogno. Henri emette un respiro profondo e si rilassa. Guarda Benton. «È stato terribile» dice.
«Sì» replica lui. «Dev’essere stato terribile. Non credo che ci sia niente di più spaventoso che non riuscire a respirare.»
Henri si posa una mano sul cuore. «Non mi si muoveva più il petto. Avevo il respiro cortissimo… E non avevo la forza…»
«Nessuno ha la forza di muovere le montagne» replica lui.
«Mi mancava l’aria.»
Benton ripensa alle fotografie e deduce che il suo aggressore deve aver cercato di asfissiarla. Ripercorre le foto una per una, cercando di ricordare le lesioni riportate da Henri per valutare la correttezza della propria ipotesi. Ricorda che le usciva il sangue dal naso, aveva sangue sulle guance e sul lenzuolo, all’altezza della testa. Era stesa prona sul letto, nuda, scoperta, le braccia in alto e i palmi verso il lenzuolo, le gambe piegate, una più dell’altra.
Mentre lui cerca di ricordare un’altra fotografia, Henri si alza dalla poltrona borbottando che vuole un altro caffè. Benton pensa alla pistola che ha nascosto nell’armadietto della cucina; lei non ha visto dove l’ha messa perché era voltata di spalle. La osserva e nel frattempo pensa alle fotografie, agli strani segni che Henri aveva sul corpo. Aveva le mani rosse, livide, e alcune contusioni sulla parte superiore della schiena, che nel giro di qualche giorno da rosse sono diventate viola.
La guarda mentre si versa un altro caffè e pensa al suo corpo steso sul letto dopo l’aggressione. Non tiene conto di quanto è bello, se non per valutare l’impatto che la sua bellezza può aver avuto sull’aggressore, uomo o donna che fosse. Benton non trae conclusioni affrettate circa il sesso dell’aggressore. Henri è magra, ma non androgina. Ha abbastanza seno e peli pubici e non avrebbe attirato un pedofilo. Al momento dell’aggressione era sessualmente attiva.