«Non è stata lei» risponde Lucy, sempre senza guardare la Ferrari nera. «Ho dovuto aspettare oltre un anno, prima che me la consegnassero.»
«Puoi farla riverniciare» osserva Rudy, infilandosi le mani in tasca. Lucy apre la porta e disinserisce il sofisticatissimo sistema di allarme, completo di telecamere a circuito chiuso in tutta la casa e nel giardino. Le telecamere non effettuano riprese, però, perché Lucy non vuole essere filmata in casa propria. Rudy la capisce, ma solo fino a un certo punto. Neanche lui vorrebbe essere ripreso da telecamere nascoste mentre si fa gli affari suoi, ma nella sua vita c’è poco da filmare, visto che vive solo. Quando Lucy ha deciso di disattivare le telecamere in casa sua, non viveva da sola.
«Forse dovresti rimettere in funzione l’impianto a circuito chiuso» le suggerisce.
«Faccio prima: cambio casa» replica lei.
Rudy la segue nell’enorme cucina e guarda il soggiorno con vista sull’oceano. È molto ampio, con un altissimo soffitto affrescato, un gigantesco lampadario di cristallo e un tavolo da pranzo, anch’esso di cristallo, che sembra intagliato nel ghiaccio. È un oggetto straordinario e Rudy non vuole nemmeno pensare a quanto deve esserle costato. Per non parlare dei divani in pelle morbidissima e dei dipinti africani, gigantesche tele con elefanti, zebre, giraffe e scimmie. Lui non potrebbe permettersi nemmeno uno dei mobili con cui Lucy ha arredato la sua seconda casa. Probabilmente neppure uno dei tappeti, o una delle piante.
«Lo so» dice lei guardandosi intorno. «Piloto gli elicotteri e non so neppure accendere lo stereo di questa casa. La odio.»
«Non cercare di impietosirmi.»
«Per favore.» Lucy interrompe la conversazione con un tono che lui conosce bene: non ne può più di litigare.
Rudy apre uno dei mobiletti alla ricerca del caffè e chiede: «Cosa c’è da mangiare, in questa casa?».
«Chili con carne, fatto in casa. È surgelato, ma ci mettiamo un attimo a scongelarlo.»
«Ottimo. Andiamo in palestra, dopo? Verso le cinque e mezzo?»
«Io devo andarci.»
In quel momento notano la porta di servizio che conduce alla piscina, quella che l’aggressore di Henri ha usato per entrare e uscire dalla villa meno di una settimana fa. È chiusa a chiave, ma sul vetro è stato appeso qualcosa dall’esterno. Lucy si avvicina, intuisce quel che è successo e spalanca la porta. Appeso al vetro, con una strisciolina di scotch, c’è un foglio.
«Cos’è?» domanda Rudy chiudendo il freezer e guardandola. «Cosa c’è?»
«Un altro occhio» risponde Lucy. «Un altro disegno, stavolta a matita. Lo stesso occhio che c’è sulla macchina e che secondo te ha fatto Henri. La quale adesso è a tremila chilometri da qui. Be’, almeno adesso non avrai più dubbi sul fatto che non è stata lei.» Chiude la porta e la riapre. «Questo bastardo vuole che io sappia che mi tiene d’occhio» dice rabbiosa. Esce a guardare meglio il disegno.
«Non lo toccare!» le grida Rudy.
«Non sono scema, cosa credi?»
11
«Mi scusi» dice un giovane che sembra un astronauta, in camice, con mascherina, occhiali protettivi, cuffia, copriscarpe e guanti di lattice. «Che cosa ne faccio della dentiera?»
Kay Scarpetta vorrebbe rispondergli che lei non lavora lì, che è un’esterna, ma le si bloccano le parole nella gola. Fissa la morta obesa stesa sul lettino di acciaio che due tizi, vestiti anch’essi da astronauti, cercano di infilare in un sacco di plastica.
«Ha la dentiera» spiega il ragazzo, questa volta rivolgendosi a Fielding. «L’avevamo posata in una scatola e ci siamo dimenticati di metterla nel sacchetto prima di ricucirla.»
«La dentiera va rimessa in bocca» risponde Kay Scarpetta, decidendo di intromettersi in quel problema assurdo. «L’impresa di pompe funebri e i familiari si aspettano che consegniate la morta con la dentiera. E sono certa che questa poveretta non vorrebbe farsi seppellire senza denti.»
«Dunque non ci tocca riaprirla?» chiede il ragazzo, che è un militare. «Meno male…»
«No, la dentiera non va nel sacchetto» ribadisce Kay. Dopo l’autopsia, gli organi sezionati del morto non vengono rimessi nella loro posizione originaria, perché è impossibile, ma vengono riposti in un robusto sacchetto di plastica trasparente, che viene poi ricucito all’interno della cavità toracica. «Dov’è?»
«Lì» le fa segno il ragazzo. «Assieme ai documenti.»
Fielding si disinteressa del problema e ignora il ragazzo, che sembra troppo giovane per essere uno studente di medicina e quindi dev’essere uno degli stagisti di Fort Lee. Probabilmente è diplomato ed è stato mandato lì per imparare a occuparsi dei morti in guerra. Kay Scarpetta è tentata di dirgli che anche ai soldati straziati dalle bombe fa più piacere essere rimandati in patria con la dentiera in bocca, ammesso e non concesso che ce l’abbiano ancora. Ma si trattiene e dice invece: «Venga, le faccio vedere».
Lo accompagna oltre una lettiga che è stata portata da poco nella sala autopsie. Vi è steso un ragazzo nero coperto di tatuaggi, morto per una ferita di arma da fuoco. Ha la pelle d’oca — reazione dei muscoli erettori dei peli al rigor mortis — e sembra infreddolito e spaventato. Il soldato prende la scatola di plastica dal ripiano e fa per porgerla a Kay Scarpetta, ma si accorge che non ha i guanti.
«Sarà meglio che prima mi copra» dice lei, andandosi a prendere un paio di guanti di lattice da un carrello poco distante. Se li infila e prende la dentiera dalla scatola.
Torna con il soldato dalla morta obesa.
«La prossima volta, piuttosto, mettete la dentiera insieme con gli effetti personali della vittima e lasciate che se ne occupi l’impresa di pompe funebri» gli suggerisce. «Ma non nel sacchetto. Questa donna era troppo giovane per avere la dentiera.»
«Pare che fosse tossicodipendente.»
«Pare?»
«Io non lo so, l’ho sentito dire» risponde il ragazzo.
«Capisco.» Kay Scarpetta osserva l’enorme cadavere steso sul tavolo di acciaio. «Sì, le sostanze vasocostrittrici, come la cocaina, fanno cadere i denti.»
«Mi sono sempre chiesto perché i drogati sono senza denti» dice il militare. «Lei è nuova?» chiede, guardando Kay Scarpetta.
«Tutt’altro» risponde lei, aprendo la bocca alla morta. «Ho lavorato qui un sacco di tempo. Adesso sono venuta per una consulenza.»
Il ragazzo annuisce confuso. «Be’, di certo sa fare il suo lavoro» dice goffamente. «Mi dispiace per la storia della dentiera. Spero che il direttore non lo venga a sapere.» Scuote la testa, sospirando. «Ci mancherebbe solo questo. Già ce l’ha con me…»
La morta non è più rigida e la sua mascella non oppone resistenza alle dita di Kay, che però non riesce comunque a rimetterle la dentiera. Non è quella giusta.
«Non è la sua dentiera» dichiara restituendo la scatola di plastica al militare. «È troppo grande. Probabilmente è di un uomo. Non vi sarete confusi?»
Il ragazzo sembra perplesso e al tempo stesso sollevato di non essere l’unico responsabile di quel pasticcio. «È possibile» risponde. «Qui c’è un viavai pazzesco. Dice che non è la dentiera di questa donna? Meno male che non ho provato io a rimettergliela.»
Fielding si è accorto che c’è un problema e si avvicina. Osserva la dentiera e domanda: «Cos’è successo? Avete scambiato le dentiere? Avete mescolato gli effetti personali di due cadaveri?».
Fulmina con lo sguardo lo stagista, che deve avere una ventina di anni, i capelli biondi che gli spuntano dalla cuffia azzurra e lo sguardo preoccupato.
«Non l’ho messa io nella scatola» spiega a Fielding. «Quando ho preso in carico la donna, era già senza denti. E la dentiera era già qui.»