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Kay Scarpetta legge più volte la frase “nella norma”: cervello, cuore, fegato e polmoni erano quelli di una ragazza sana.

Nel corso della prima autopsia Fielding ha riscontrato contusioni che adesso dovrebbero essere ancora più evidenti, dal momento che non c’è più sangue nel corpo e quello intrappolato nei tessuti dovrebbe risaltare sotto la pelle pallida. Su un diagramma sono disegnate contusioni in corrispondenza delle mani. Kay Scarpetta posa i fogli ed estrae dalla cavità toracica il pesante sacchetto di plastica che contiene gli organi sezionati. Si avvicina alla morta e le solleva una mano. È minuta, pallida e rinsecchita, fredda e umida. La volta e osserva il livido. Mano e braccio sono molli: il rigor mortis è finito, quasi la vita fosse ormai talmente lontana da non poter più opporre resistenza alla morte. Il livido violaceo è nella parte superiore della mano bianchissima, quasi spettrale, e va dalla nocca del pollice al mignolo. Sulla mano sinistra ce n’è uno identico.

«Una bella stranezza, vero?» dice Fielding. «È come se qualcuno l’avesse tenuta ferma per le mani. Ma per farle cosa?» Apre il sacchetto di plastica contenente gli organi sezionati, che emanano un puzzo spaventoso. «Per la miseria! Non so che cosa ne ricaverai, da questi. Ma accomodati pure.»

«Posa pure il sacco sul tavolo, grazie. Sì, potrebbero averla tenuta ferma. Come è stata trovata? In che posizione?» domanda Kay Scarpetta avvicinandosi a un lavandino per prendere un paio di guanti. Sono spessi, di gomma, e le arrivano fino al gomito.

«Non lo sappiamo. Quando la madre è rientrata in casa, le ha fatto la respirazione bocca a bocca. Dice di non ricordare se Gilly era supina, prona o su un fianco. E di non sapere perché avesse quei lividi sulle mani.»

«Macchie ipostatiche?»

«Era morta da troppo poco tempo.»

Quando la circolazione si arresta, il sangue si deposita e a causa della forza di gravità si formano macchie più scure nei punti in cui il corpo preme contro una superficie. Benché sia preferibile che l’esame del cadavere avvenga prima possibile dopo la morte, arrivare in ritardo ha i suoi vantaggi: dal rigor mortis e dalle macchie ipostatiche si può capire in che posizione era il corpo al momento della morte, anche dopo eventuali spostamenti e manomissioni.

Kay Scarpetta apre delicatamente il labbro inferiore di Gilly per controllare se in bocca ha lesioni compatibili con la pressione di una mano o di un cuscino. Vuole capire se è stata soffocata.

«Guarda pure, ma ho già controllato io» le dice Fielding. «E non ho visto niente.»

«Com’era la lingua?»

«Non se l’è morsa, se è a questo che alludi. Non voglio dirti dov’è adesso.»

«Me lo posso immaginare» replica Kay Scarpetta infilando le mani fra gli organi sezionati. Fruga nel sacchetto alla ricerca della lingua.

Fielding si sciacqua le mani protette dai guanti nel lavandino di metallo e se le asciuga in una salvietta. «Marino non è venuto.»

«Non so dove sia» risponde Kay, un po’ preoccupata.

«I corpi in avanzato stato di decomposizione non gli sono mai piaciuti.»

«Mi stupirei del contrario, per la verità.»

«E soprattutto quelli degli adolescenti, che sono ancora peggio» aggiunge Fielding, appoggiandosi a un armadietto e osservandola. «Spero che tu ci capisca qualcosa, perché io non ho cavato un ragno dal buco. Eppure mi sono incaponito…»

«Emorragie petecchiali? Gli occhi sono in cattivo stato. Ormai non si vede più niente.»

«Quando è arrivata, era congestionata» spiega Fielding. «Difficile dire se avesse emorragie petecchiali. Io non ne ho viste.»

Kay Scarpetta immagina il corpo di Gilly Paulsson al suo arrivo in obitorio, a poche ore dalla morte, con la faccia paonazza e gli occhi rossi. «Edema polmonare?» domanda.

«Sì.»

Kay Scarpetta ha trovato la lingua. Va a lavarla nel lavandino e la asciuga con una salvietta di spugna, bianca, da pochi soldi. Avvicina una lampada e la sistema vicino alla lingua. «Hai una lente di ingrandimento?» domanda, spostando leggermente la lampada.

«Te la vado a prendere.» Fielding apre un cassetto e le porge la lente. «Vedi qualcosa? Io non ho trovato nulla.»

«Soffriva di convulsioni?»

«Non mi risulta.»

«Non vedo lesioni.» Cerca i segni che sarebbero potuti rimanere sulla lingua se Gilly Paulsson se la fosse morsa. «Hai fatto qualche tampone sulla lingua e sulle mucose della bocca?»

«Sì, dappertutto» risponde Fielding tornando dov’era prima. «Non ho visto niente. Finora i laboratori non hanno trovato nulla che indichi che è stata stuprata. Non so se hanno scoperto altro.»

«Dal CME-1 risulta che è arrivata in pigiama. Con la parte superiore alla rovescia.»

«Sì, mi pare.» Prende la cartella e incomincia a sfogliarla.

«Hai fotografato tutto.» Non è una domanda, ma un’affermazione. Bisogna fare così.

«Certamente» risponde Fielding sorridendo. «Da chi ho imparato il mestiere?»

Kay Scarpetta gli lancia un’occhiata come a dire che, se veramente avesse imparato da lei, sarebbe più preciso nel suo lavoro, ma resta zitta. «Ti comunico con sommo piacere che sulla lingua non ti sei lasciato sfuggire niente.» Ripone la lingua nel sacchetto, in cima al mucchio di organi marroni e semidecomposti. «Giriamola. Dobbiamo tirarla fuori dal sacco.»

Procedono per gradi. Fielding afferra il corpo della morta sotto le ascelle e la solleva, mentre Kay Scarpetta sfila via il sacco da sotto. Poi Fielding gira il cadavere a faccia in giù e Kay finisce di togliere il sacco di plastica, che piega e posa su una lettiga. Lei e Fielding vedono il livido sulla schiena contemporaneamente.

«Porca miseria!» esclama lui, irritato.

È appena rosato, tondeggiante, delle dimensioni di una moneta da un dollaro, appena sotto la scapola sinistra.

«Giuro che l’altra volta non c’era» dice Fielding chinandosi a guardare da vicino e regolando la lampada. «Merda. Non riesco a credere di essermelo lasciato sfuggire.»

«Sai come succede» dice Kay Scarpetta, guardandosi bene dal dirgli quello che pensa perché non ha senso criticarlo, a quel punto. «Le contusioni si vedono molto meglio una volta finita l’autopsia» dice.

Prende un bisturi dal carrello e pratica alcune incisioni profonde per controllare se l’arrossamento è superficiale e quindi magari provocato durante l’esame del cadavere. Non è così: il sangue nei tessuti sottostanti è diffuso, a indicare che un trauma ha rotto i capillari quando il sangue era ancora sotto pressione. I lividi altro non sono che questo: piccoli versamenti di sangue provocati da capillari rotti. Fielding posa un righello di plastica vicino alle incisioni e scatta alcune fotografie.

«Hai mandato le lenzuola in laboratorio?» chiede Kay Scarpetta.

«Io non le ho manco viste. Le avrà prese la polizia. Comunque sì, dovrebbero essere arrivate ai laboratori. Maledizione, non capisco come ha fatto a sfuggirmi quel livido.»

«Chiediamo che cerchino tracce di siero da edema polmonare su lenzuoli e federa. Nel caso, che analizzino il campione per vedere se c’è epitelio respiratorio ciliato. Se c’è, è probabile che la ragazza sia morta per asfissia.»

«Merda» esclama Fielding. «Non so come ho fatto, a non vedere quel livido. A questo punto ritieni probabile che sia stata uccisa, immagino.»

«Sì, penso che l’assassino si sia seduto sopra di lei» risponde Kay Scarpetta. «La ragazza era prona e l’assassino le ha puntato un ginocchio sulla parte superiore della schiena con tutto il suo peso, tenendole le braccia sopra la testa, palmi all’ingiù. Questo spiegherebbe i lividi sulle mani e sulla schiena. Asfissia meccanica, direi. Quindi sì, omicidio. Se qualcuno ti si siede sulla cassa toracica, non riesci più a respirare. Una morte orribile.»

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