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La vicina di Lucy abita in una villa bianca con il tetto piatto e ampie vetrate, circondata dal verde. A Lucy fa venire in mente certe case che ha visto in Finlandia. La sera, illuminata, sembra una gigantesca lanterna.

Davanti alla villa, fra palme e cactus, c’è una fontana. Accanto alla porta di ingresso c’è un Grinch gonfiabile, verde, che Lucy troverebbe comico, se ad abitare in quella casa fosse qualcun altro. In alto a sinistra c’è una telecamera che dovrebbe essere invisibile. Lucy suona il campanello e immagina che la vicina la veda sugli schermi del suo impianto a circuito chiuso. Nessuna risposta. Suona di nuovo. Di nuovo nessuna risposta.

“E va bene. So che sei in casa perché il giornale non c’è e la bandierina sulla cassetta della posta è alzata” pensa Lucy. “So che mi stai guardando. Probabilmente sei in cucina con gli occhi fissi sullo schermo e l’orecchio vicino all’altoparlante per sentire se sbuffo o impreco fra me e me. Comunque ti avverto: finché non mi apri la porta, non mi muovo da qui.”

La sceneggiata continua per circa cinque minuti, con Lucy impalata davanti alla porta che suona il campanello a intervalli regolari e immagina la sua vicina davanti allo schermo. Non può farle paura, vestita com’è — jeans, T-shirt, marsupio e scarpe da ginnastica — ma di sicuro le sta dando fastidio. Forse è sotto la doccia. Forse non la sta fissando. Lucy suona ancora una volta. La vicina continua a non aprire. “Lo sapevo” si dice Lucy. “Potrei avere un attacco di cuore e tu mi lasceresti qui. Come faccio a costringerti ad aprire questa cavolo di porta?” Ripensa a Rudy che ha tirato fuori il distintivo spaventando a morte il sudamericano un paio di ore prima e decide di passare alla fase due: a mali estremi, estremi rimedi. Tira fuori il portafoglio nero dalla tasca posteriore dei jeans e piazza il distintivo davanti alla telecamera.

«Buongiorno» dice a voce alta. «Sono della polizia. Non si allarmi, abito nella casa vicina. Ho bisogno di parlarle. Mi può aprire?» Suona di nuovo, continuando a tenere il distintivo davanti alla telecamera.

Batte le palpebre, abbagliata dal sole, sudata. Aspetta, tende le orecchie, ma non capta nessun suono. Sta per rimettere il distintivo falso davanti alla telecamera, quando sente una voce stizzita.

«Che cosa vuole da me?» chiede la voce da un altoparlante nascosto vicino alla telecamera che dovrebbe essere invisibile.

«Sono la sua vicina» spiega Lucy. «C’è stata un’effrazione a casa mia: immagino che lei si sia accorta del trambusto.»

«Non mi ha detto che è della polizia?» ribatte la voce in tono di accusa, con un marcato accento del Sud.

«Sono tutte e due.»

«Tutte e due cosa?»

«Sono della polizia e sono la sua vicina. Mi chiamo Tina. Mi apre, per favore?»

Silenzio. Poi, meno di dieci secondi dopo, Lucy vede avvicinarsi alla porta a vetri una sagoma scura, che piano piano si trasforma in una donna fra i quaranta e i cinquant’anni, in tenuta da tennis e scarpe da jogging. Traffica per un’eternità con le serrature, poi disattiva l’allarme e finalmente apre la porta. Sembra non avere nessuna intenzione di invitare Lucy ad accomodarsi e la fissa con freddezza.

«Facciamo in fretta, per piacere» esordisce. «Sono una persona riservata e non do confidenza agli sconosciuti. Non mi interessa mantenere relazioni di buon vicinato. Anzi, sono venuta a stare in questo quartiere proprio per non averne. Nel caso non se ne fosse accorta, qui ognuno si fa i fatti suoi.»

«“Qui” in che senso?» chiede Lucy, facendo l’ingenua.

«Che cosa sta cercando di dirmi?» si spazientisce la donna. «Che vuole sapere?»

«Se ha visto qualcuno in casa mia. Perché è di nuovo entrato qualcuno nella mia proprietà, qui accanto» le risponde Lucy. «Forse stamattina presto, non lo so, perché ieri ero fuori città e sono arrivata a Boca in elicottero. Vede, credo di sapere che cosa vuole quest’uomo, ma sono un po’ preoccupata per lei. Cioè, non vorrei che rimanesse coinvolta in qualche brutta faccenda, mi spiego?»

«Ah.» Lucy nota una bella barca ormeggiata dietro la villa. Dopo un po’ la vicina le chiede: «Com’è che lavora nella polizia e abita in una villa come quella?». Continua a guardarla negli occhi senza voltarsi verso la casa salmone in stile mediterraneo. «E ha pure l’elicottero?»

«Be’, è una storia lunga» replica Lucy con un sospiro. «Vede, mi sono appena trasferita da Los Angeles. Cioè, sarei dovuta restare a Beverly Hills, se non fosse stato per questo maledetto film. È sempre uno sconvolgimento andare a fare le riprese sul posto, è una cosa incredibile…»

«State girando un film nella casa qui accanto?» domanda la vicina sbarrando gli occhi.

«Senta, possiamo non parlarne qua fuori?» replica Lucy, guardandosi intorno allarmata. «Le spiace se entro un minuto? Ma mi deve promettere che non riferirà niente di quello che le dirò a nessuno, perché rischio di passare dei guai… Lei mi capisce.»

«Ma certo!» La donna punta un dito verso Lucy e sorride. «Lo sapevo, che era un personaggio famoso!»

«Oh, no! La prego, non me lo dica!» esclama Lucy inorridita mentre entrano in una sala minimalista, tutta bianca, con un’immensa vetrata che si affaccia su un patio di pietra, una piscina e una barca di nove metri. Probabilmente la sua snob e viziata proprietaria non ci sa neppure andare. Si chiama It’s settled ed è registrata a Grand Cayman, noto paradiso fiscale caraibico.

«Bella barca» dice Lucy, sedendosi su una poltrona bianca che sembra sospesa fra mare e cielo. Posa il cellulare su un tavolino di cristallo.

«È italiana» risponde la donna, con un sorriso d’intesa tutt’altro che simpatico.

«Mi ricorda Cannes» replica Lucy.

«Ah, già! Il festival del cinema?»

«No, più che altro il porticciolo. Non so se ha presente il club all’angolo del primo Quai, vicino al Poseidon e all’Amphitrite. Ci lavora un mio conoscente, Paul, che circola su una vecchia Pontiac gialla che nel Sud della Francia non passa certo inosservata. Comunque, se poi prende il Quai numero quattro e va verso il faro, vede le barche più belle del mondo. Mai viste tante Mangusta e Leopard in tutta la mia vita. Io una volta avevo uno Zodiac con un motore Suzuki che andava benissimo, ma… Chi ha tempo di andare in barca? Diciamocelo. Cioè, forse lei sì.» Guarda il cabinato ormeggiato fuori. «Certo che se supera le dieci miglia all’ora, con quel coso, lei va nei guai.»

La donna la guarda, confusa. È molto curata, ma non bella. Ricca, viziata, visibilmente amante di Botox, collagene, trattamenti viso e corpo e quant’altro. Ha la fronte liscia e immobile. Anche volesse, non riuscirebbe più ad aggrottarla. E comunque ha un’espressione talmente astiosa e incattivita che non ha bisogno di accigliarsi.

«Allora. Io mi chiamo Tina, gliel’ho già detto. Lei è…?»

«Per le amiche, Kate. Vogliamo darci del tu?» replica la ricca signora. «Abito qui da sette anni e non ho mai avuto problemi. A parte con Jeff, che adesso vive in pianta stabile alle Cayman. Dunque non sei veramente della polizia.»

«Scusami. Non sapevo come altro fare per convincerti ad aprirmi la porta.»

«E il distintivo?»

«Te l’ho fatto vedere per convincerti ad aprirmi, ma non è vero. Cioè, non proprio. Sai, quando devo interpretare una parte, cerco di immedesimarmi più che posso nel personaggio. Il regista mi ha consigliato di venire a stare nella casa dove faremo le riprese e di girare con il distintivo e la stessa macchina che poi userò nel film. Per calarmi meglio nella parte, capisci?»

«Adesso capisco…» Kate le punta di nuovo contro un dito. «Anche le spider fanno parte della sceneggiata, eh?» Si siede su una poltrona bianca e si sistema un cuscino sulla pancia. «Non sei un viso noto, però.»

«Cerco di apparire meno che posso.»

Kate cerca di aggrottare la fronte. «Be’, ma da qualche parte dovrei averti visto, no? Scusa, come fai di cognome?»