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«Stiamo lavorando tutti a questo caso con molto impegno» la conforta Kay. «Siamo intervenuti per questo.»

«Di dove siete?» La signora Paulsson guarda Marino e beve un sorso di caffè.

«Florida. Abitiamo poco a nord di Miami» risponde lui.

«Oh, credevo che lei fosse di Los Angeles» dice la signora Paulsson, lanciando un’occhiata al berretto.

«Lavoro molto con Los Angeles.»

«Stupefacente» dice lei. Ma non sembra per niente stupefatta e Kay Scarpetta intuisce che nasconde qualcosa. È come se dentro la signora Paulsson si celasse una donna completamente diversa.

«Il telefono squilla in continuazione: giornalisti, curiosi… L’altro giorno sono venuti con un camion gigantesco, pieno di antenne o cosa diavolo erano.» Si volta e indica la strada davanti a casa. «È uno scandalo, non vi pare? L’agente dell’FBI, che era qui quando sono venuti quelli della televisione, mi ha detto che fanno così perché non si è ancora scoperto che cosa è successo veramente a Gilly. Secondo lei, mi è già andata bene, perché certe volte i giornalisti si accaniscono molto di più. Non capisco come si faccia a dire che mi è andata bene così, sinceramente…»

«Forse l’agente dell’FBI si riferiva al fatto che a certi casi viene data molta più pubblicità» replica Kay con dolcezza.

«La mia è una tragedia!» esclama la signora Paulsson asciugandosi gli occhi. «Che cosa può esserci di peggio che perdere una figlia in questo modo?»

«Come è morta Gilly, secondo lei?» chiede Marino, passando il pollice sul bordo della tazza.

«Di influenza» risponde la signora Paulsson. «Dio l’ha voluta chiamare a sé, non so per quale motivo. Vorrei tanto saperlo…»

«Sembra che non sia morta di influenza» precisa Marino.

«Oggigiorno è sempre così. Sono tutti sospettosi, vogliono il dramma. La mia bambina aveva la febbre alta. Quest’anno l’influenza è micidiale.» Guarda Kay Scarpetta.

«Signora Paulsson, io non credo che sua figlia sia morta di influenza. Immagino che l’abbiano già informata che l’autopsia conferma la mia ipotesi. Ha parlato con il dottor Fielding, vero?»

«Sì, certamente. Mi ha chiamato subito. Ma come fate a stabilire che uno non è morto di influenza? Come potete esserne sicuri, se non l’avete sentito tossire, non gli avete misurato la febbre, non lo avete sentito lamentarsi?» Scoppia in lacrime. «Gilly aveva la febbre a trentotto, una tosse da far paura! Sono uscita a comprarle lo sciroppo. Ho preso la macchina e sono andata in Cary Street, in farmacia.»

Kay Scarpetta lancia un’occhiata alla boccetta di sciroppo sul bancone e pensa ai campioni di tessuto polmonare che ha esaminato al microscopio poco prima. C’erano tracce di fibrina, linfociti e macrofagi e gli alveoli erano aperti. La broncopolmonite di Gilly, complicanza dell’influenza abbastanza frequente nei bambini e negli anziani, era in via di guarigione.

«Signora Paulsson, è possibile stabilire se una persona è morta di influenza dalle condizioni dei polmoni» le spiega. Non vuole entrare nei dettagli e descriverle in che stato sarebbero dovuti essere i polmoni di Gilly se fosse morta di broncopolmonite acuta. «Sua figlia era sotto antibiotici?»

«Sì, li ha presi per una settimana.» Beve un sorso di caffè. «E infatti mi sembrava che stesse guarendo. Pensavo che ormai avesse solo un po’ di raffreddore.»

Marino spinge indietro la sedia. «Vi spiace se vi lascio sole?» domanda. «Vorrei dare un’occhiata in giro.»

«Non so a cosa, ma faccia pure. Non sarà né il primo né l’ultimo a guardare dappertutto. La camera di Gilly è in fondo.»

«Grazie.» Marino si allontana, pestando con gli scarponi pesanti sul parquet.

«Gilly stava guarendo» dice Kay Scarpetta. «L’esame dei polmoni lo conferma.»

«Però era ancora molto debole.»

«Signora Paulsson, Gilly non è morta di influenza» ripete con voce ferma. «È importante che lei se ne convinca. Se fosse morta di influenza, io adesso non sarei qui. Sto cercando di capire la dinamica dell’accaduto e ho bisogno di farle qualche domanda.»

«Non ha l’accento di qui, dottoressa.»

«Infatti sono di Miami.»

«Oh, e continua a vivere lì? Non sono mai stata a Miami. Mi piacerebbe andarci. Specie quando qui c’è questo tempaccio.» Si alza a prendere la caffettiera. Si muove con difficoltà, con le gambe rigide. Kay Scarpetta prova a immaginarla seduta sulla schiena di Gilly: non esclude che sia successo, ma le pare assai improbabile. La signora Paulsson pesa poco più della figlia che, cercando di divincolarsi, si sarebbe procurata più lesioni di quelle che presenta il suo cadavere. Ma l’ipotesi che sia stata la madre a ucciderla, per quanto remota e raccapricciante, non va scartata completamente.

«Mi sarebbe piaciuto andarci con Gilly. A Miami e anche a Los Angeles. Mi sarebbe piaciuto viaggiare con lei» dice la signora Paulsson. «Ma io ho paura di volare e soffro la macchina, perciò non siamo mai andate da nessuna parte. Sa quanto rimpiango di non essermi fatta più forza, adesso?»

La caffettiera le trema nelle mani. Kay Scarpetta gliele osserva, alla ricerca di eventuali lividi o graffi o abrasioni. Non ne nota, ma sono passate due settimane. Si ripromette di chiedere ai poliziotti che l’hanno interrogata subito dopo la morte della figlia in che condizioni avesse mani e braccia allora.

«Sono così pentita! A Gilly sarebbe tanto piaciuto andare a Miami, vedere le palme, i fenicotteri…» insiste.

Versa il caffè nelle tazze e ripone la caffettiera. «Quest’estate sarebbe dovuta andare via con suo padre.» Si siede sulla sedia di rovere. «O forse sarebbero restati a Charleston, non lo so. Comunque, non era mai stata neanche a Charleston.» Poggia i gomiti sul tavolo. «Gilly non è mai stata al mare. Non l’ha mai visto, se non in fotografia o alla TV. Però io non le lasciavo guardare tanta televisione, sa? Facevo male?»

«Il padre di Gilly abita a Charleston?» domanda Kay Scarpetta, pur conoscendo già la risposta.

«Si è trasferito l’estate scorsa. Fa il medico. È andato a stare in una grande casa, sul fiume, che è citata persino sulle guide turistiche. Si figuri che la gente paga per visitare il suo giardino. E naturalmente lui non lo cura, non si mette certo a tagliare l’erba… Pagherà qualcuno che lo faccia per lui. Frank non fa niente, se non gli interessa. Come il funerale di Gilly, per esempio. Ha messo tutto in mano agli avvocati e così è venuto fuori un gran pasticcio. È una manovra contro di me, capisce? Perché io voglio che Gilly resti qui a Richmond. E allora lui, per ripicca, vuole che vada a Charleston.»

«Che tipo di medico è?»

«Generico. È abilitato a rilasciare l’idoneità al volo ai piloti e, siccome a Charleston c’è una base dell’aeronautica, ha la coda di pazienti davanti allo studio. Si dà un sacco di arie: settanta dollari a certificato, e ha la coda davanti allo studio… Chissà quanto guadagna.» La signora Paulsson continua a parlare a raffica, quasi senza prendere fiato tra una frase e l’altra, dondolandosi leggermente sulla sedia.

«Signora Paulsson, mi racconti che cosa è successo giovedì quattro dicembre. Cominci da quando si è svegliata la mattina.» Kay Scarpetta capisce che, se non prende in mano la situazione, non concluderà niente: la signora Paulsson continuerà a parlare d’altro, a essere evasiva e a perdersi in dettagli privi di importanza, dando sfogo all’astio che prova per l’ex marito. «A che ora si è alzata?»

«Alle sei, come sempre. Non ho neppure bisogno di mettere la sveglia, ne ho una qui dentro.» Si tocca la testa. «Forse perché sono nata alle sei di mattina, mi sveglio sempre alle sei. Quindi anche quella mattina, certamente…»

«Che cosa ha fatto quando si è svegliata?» Kay non ama interrompere la gente, ma si rende conto che, se non fa così, la signora Paulsson continuerà con le sue digressioni. «Si è alzata?»