«Qual è il tuo champagne preferito?» le chiede Lucy, pensando alla bottiglia vuota che ha visto accanto al letto.
«Perché? Ce n’è più di un tipo?» Kate scoppia a ridere.
«Sì. Certo, dipende da quanto si è disposti a spendere.»
«Scherzi? Ti ho mai raccontato di quando io e Jeff ci siamo dati alla pazza gioia al Ritz, a Parigi? No, certo che no: è la prima volta che ci vediamo! E che mi sembra di conoscerti da un sacco» dice, avvicinandosi a Lucy e accarezzandole un braccio. «Eravamo… No, anzi, aspetta.» Beve un altro sorso, sempre tenendole la mano sul braccio. «Eravamo all’Hotel de Paris a Montecarlo. Ci sei mai stata?»
«Sì, sulla mia Enzo» mente Lucy.
«Che sarebbe? Quella metallizzata o quella nera?»
«La Enzo è rossa. Non è qui.» È quasi la verità: la Enzo non c’è perché non esiste. Cioè, Lucy non ne ha mai posseduto una.
«Quindi ci sei stata. All’Hotel de Paris?» chiede Kate, riprendendo ad accarezzarle il braccio. «Be’, Jeff e io siamo andati al casinò.»
Lucy annuisce, alza il bicchiere e lo avvicina alle labbra, senza bere.
«Ero alle slot machine ed era il mio momento fortunato. Santo cielo, se era il mio momento fortunato!» Finisce il bicchiere e stringe il braccio di Lucy. «Sei molto tonica, sai? Allora, ti dicevo: ho avuto fortuna e così ho proposto a Jeff di festeggiare la mia vincita. Ai tempi, andavamo ancora d’amore e d’accordo.» Ride e guarda il bicchiere vuoto. «Così siamo tornati nella nostra suite. La Winston Churchill Suite, così si chiamava. Me lo ricordo ancora. E indovina che cosa abbiamo ordinato?»
Lucy sta cercando di decidere se prendere le distanze da Kate subito o aspettare che faccia qualcosa di più compromettente. Le sta accarezzando il braccio, avvicinandoselo al corpo sottile. «Dom Pérignon?» chiede Lucy.
«Mais non! Il Dom Pérignon è gassosa. Gassosa da ricchi, okay, e non dico che non mi piaccia, perché lo bevo, ma per festeggiare ci vuole qualcosa di più. No, abbiamo ordinato una bottiglia di Cristal Rosé da cinquecento e rotti euro. Be’, all’Hotel de Paris i prezzi sono quelli. L’hai mai assaggiato?»
«Non mi ricordo.»
«Ah, te lo ricorderesti, se l’avessi bevuto. Una volta assaggiato quello, il resto fa schifo. Non riesci a bere altro, credimi. E dopo il Cristal, abbiamo ordinato un Rouge de Château Margaux. Divino!» Ha una pronuncia ottima, per essere ubriaca.
«Vuoi finirlo tu?» Lucy le porge il flûte, mentre Kate le si struscia addosso. «Dai, facciamo cambio.» Prende il bicchiere vuoto di Kate e le mette in mano il suo, pieno a metà.
17
Edgar Allan Pogue ricorda il giorno in cui lei scese a parlare al suo capo. Doveva essere per una cosa importante, se la direttrice si era abbassata a prendere quel montacarichi, scomodissimo e inaffidabile.
Era di ferro, arrugginito, con le porte che si chiudevano dal basso verso l’alto e si incontravano nel mezzo, come le fauci di un animale feroce. Naturalmente c’erano anche le scale: le norme antincendio le prevedevano in ogni edificio pubblico. Tuttavia nessuno le prendeva mai per scendere nella divisione di Anatomia, che era sottoterra, e meno che mai Edgar Allan Pogue. Quando prendeva quel montacarichi perché doveva salire all’obitorio, non appena le porte metalliche si chiudevano si sentiva come Giona nella balena. Il fondo di acciaio era perennemente coperto di polvere e di cenere, e qualcuno ci lasciava sempre dentro una barella, fregandosene altamente se a lui poi veniva la claustrofobia.
Ma lei no, lei non se ne fregava.
Seduto sulla sua sedia a sdraio nell’appartamento di Hollywood di cui ha appena preso possesso, con la mazza da baseball in mano, Edgar Allan Pogue ricorda la mattina in cui lei uscì dal montacarichi con il camice bianco e i calzoni verdi da chirurgo e attraversò la sala senza finestre in cui lui trascorreva le giornate — e, in seguito, anche le notti — con passo leggerissimo. Indossava scarpe con le suole di gomma, probabilmente perché erano antiscivolo e comode e lei stava in piedi molte ore nella sala autopsie, a smembrare cadaveri. Strano: fare a pezzi cadaveri per lei andava bene perché era una dottoressa, mentre lui, Pogue, non era niente. Non ha neppure finito le superiori, anche se sul curriculum ha dichiarato di essere diplomato e tutti ci hanno creduto.
“Non si lasciano le barelle nel montacarichi” disse la dottoressa al capo di Pogue, Dave, un uomo curvo con gli occhi scuri e pesti e i capelli tinti pieni di brillantina. “Specie quelle che usate nel crematorio, che lasciano in giro un sacco di polvere. Non mi piace e non è igienico.”
“Sì, dottoressa” rispose Dave, manovrando l’argano con cui tiravano fuori i cadaveri nudi e rosa dalla vasca piena di formalina. Ai tempi in cui Edgar Allan Pogue lavorava nella divisione di Anatomia, per estrarli dalla vasca gli infilavano un grosso gancio di ferro in ciascun orecchio. “Quella non è nel montacarichi” le fece poi notare Dave guardando una barella graffiata, mezza arrugginita e piena di ammaccature, parcheggiata in mezzo alla sala con un involucro di plastica lucida sopra.
“Dico in generale. Quasi nessuno usa il montacarichi, ma preferisco comunque che sia pulito” ribatté lei.
Fu in quel momento che Pogue si rese conto che per la dottoressa il loro era un lavoro sporco. Come altro avrebbe dovuto interpretare quel commento? Però, senza quei cadaveri, gli studenti di medicina non avrebbero potuto fare pratica. Che cosa avrebbe fatto la famosa Kay Scarpetta, se da studentessa non avesse potuto fare le esercitazioni? Se non ci fosse stato lui a fornirle cadaveri da sezionare, avrebbe mai imparato a fare le autopsie? In realtà, non era stato Edgar Allan Pogue a procurarle i cadaveri su cui esercitarsi, visto che Kay Scarpetta aveva studiato a Baltimora e aveva dieci anni più di lui.
Quella mattina non ebbe modo di parlarle, ma notò che non si dava arie. Era molto educata e lo salutava sempre, tutte le volte che scendeva nella divisione di Anatomia, per qualsiasi motivo. “Buongiorno, Edgar Allan”, “Dov’è Dave, Edgar Allan?”. Quella mattina, tuttavia, non gli parlò. Attraversò la sala con le mani in tasca e forse non lo vide neppure. Non cercava lui, questo è certo. Altrimenti lo avrebbe trovato in mezzo alla cenere, come Cenerentola, a sbriciolare frammenti di osso con la sua mazza da baseball preferita.
Ma lei non lo cercò. No, non lo vide nemmeno. Lui, d’altra parte, nascosto al buio nella nicchia di cemento davanti al forno crematorio, vedeva bene la sala in cui Dave stava estraendo con l’argano dalla vasca colma di formalina una vecchia rosa appesa a due ganci, braccia e ginocchia piegate come se fosse ancora dentro la vasca, targhetta di acciaio inossidabile che pendeva dall’orecchio sinistro.
Osservava la scena e la sentì dire: “Nella sede nuova non faremo più così, Dave. Sistemeremo i cadaveri della divisione di Anatomia nelle celle frigorifere, assieme agli altri corpi. Questo metodo è primitivo, medievale. Non va bene”.
“Sì, certo, le celle frigorifere sono molto meglio. Anche se forse nelle vasche ce ne stanno di più” ribatté Dave. Premette un pulsante e fermò l’argano, lasciando la vecchia rosa sospesa a mezz’aria.
“Sempre che riesca a trovare lo spazio. Ogni volta succede così: alla fine è troppo poco. Dipende tutto dallo spazio” disse la dottoressa, grattandosi il mento e controllando il proprio regno.
Edgar Allan Pogue ricorda di aver pensato: “Okay, adesso questa sala, le vasche, il forno e la sala di imbalsamazione sono il tuo regno. Ma quando tu non ci sei, cioè il novantanove per cento del tempo, sono il mio regno. E le persone che caliamo nelle vasche e bruciamo nel forno sono i miei pazienti, i miei amici”.