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“Speravo che ci fosse qualcuno ancora da imbalsamare” disse Kay Scarpetta a Dave, mentre la vecchia rosa dondolava per aria, appesa alla catena. “Forse mi conviene annullare la dimostrazione.”

“Edgar Allan è stato velocissimo… Ha imbalsamato il corpo e lo ha messo nella vasca prima che io riuscissi ad avvertirlo che le serviva, dottoressa” spiegò Dave. “E dopo non ne sono arrivati altri.”

“È utilizzabile per una dimostrazione o è già destinato altrove?” chiese la dottoressa, guardando il cadavere della vecchia sospeso sopra la vasca.

“Edgar Allan?” lo chiamò Dave. “È destinato a qualcuno il cadavere che hai appena imbalsamato?”

Edgar Allan Pogue mentì e disse di no, perché sapeva che Kay Scarpetta non avrebbe mai usato per una dimostrazione il cadavere di qualcuno che aveva donato il proprio corpo alla ricerca scientifica. Edgar Allan Pogue sapeva che alla vecchia lì appesa non sarebbe importato nulla. A quella interessava soltanto prendersela con il Creatore perché era stato ingiusto con lei.

“Pazienza” decise Kay Scarpetta. “Mi dispiace annullare la dimostrazione, e quindi lo userò lo stesso, anche se è imbalsamato.”

“So che non è l’ideale” replicò Dave. “Mi dispiace.”

“Non si preoccupi” disse Kay Scarpetta, posandogli una mano sulla spalla. “Non poteva sapere che non ne sarebbero arrivati altri. Proprio oggi che ho la dimostrazione… Be’, me lo mandi su.”

“D’accordo. Le sto facendo un favore, si ricordi” disse Dave strizzandole l’occhio. “Oggigiorno le donazioni scarseggiano.”

“E va già bene che la gente non sa dove va a finire, altrimenti ce ne sarebbero ancora meno” replicò lei, tornando verso il montacarichi. “Bisogna che ci vediamo per parlare di come organizzare il lavoro nella nuova sede, Dave. La chiamo nei prossimi giorni.”

Così Edgar Allan Pogue aiutò Dave a posare il corpo della vecchia sulla barella impolverata di cui si era lamentata la dottoressa poco prima. Poi la mise nel montacarichi e salì con lei al primo piano, pensando che di sicuro non si aspettava di finire così. Non ne aveva la più pallida idea, lui lo sapeva perché le aveva parlato, sia da viva che da morta. La spinse per un corridoio che odorava di disinfettante e oltre la porta che conduceva nella sala autopsie.

«E questa è la storia della signora Arnette, mamma cara» conclude, seduto sulla sdraio con le foto della donna posate sulle cosce bianche e pelose. «So che ti sembrerà brutto e ingiusto, ma ti sbagli. Sono certa che sarebbe stata contenta di essere sezionata davanti a un pubblico di giovani poliziotti. È meglio che finire squartata da una massa di studenti ingrati, non credi? È una bella storia, vero, mamma? Una storia bellissima.»

18

La camera da letto è grande abbastanza da contenere un letto singolo con un comodino a sinistra e una cassettiera vicino alla cabina armadio. I mobili sono di rovere, non antichi ma nemmeno moderni, abbastanza belli. Sopra il letto sono appesi alcuni poster.

Gilly Paulsson si addormentava ai piedi del duomo di Siena e si svegliava sotto il palazzo di Settimio Severo sul Palatino. Probabilmente si pettinava i lunghi capelli biondi davanti allo specchio vicino a Santa Croce e alla statua di Dante Alighieri. Magari non sapeva neppure chi fosse Dante, o dove si trovasse l’Italia.

Marino è alla finestra che si affaccia sul giardino dietro la casa. Non dà spiegazioni, perché quello che ha scoperto è ovvio: la finestra è a poco più di un metro da terra, con un vetro scorrevole che si blocca mediante una maniglia a pressione.

«Rotta» dichiara, premendo sul meccanismo di chiusura con le dita protette da un paio di guanti di cotone bianchi per dimostrare come è facile aprire la finestra.

«L’ispettore Browning l’avrà notato» dice Kay Scarpetta, infilandosi un paio di guanti anche lei. Sono lievemente macchiati, perché li tiene sempre in una tasca laterale della borsetta. «Anche se non mi pare che il verbale precisasse che la finestra aveva la maniglia rotta. È stata forzata?»

«No» risponde Marino richiudendo il vetro. «Era soltanto vecchia e usurata. Mi chiedo se la ragazzina apriva mai la finestra. Non credo che l’assassino sia passato di qui per caso e si sia detto: “Oh, guarda, la ragazza è a casa e la mamma è uscita. Quasi quasi entro. Che fortuna, la finestra è rotta!”.»

«Infatti. Probabilmente sapeva già che non si chiudeva» dice Kay Scarpetta.

«Già.»

«Quindi è qualcuno che conosceva la casa o aveva la possibilità di tenerla sotto controllo.»

«Infatti» replica Marino avvicinandosi alla cassettiera e aprendo il cassetto più in alto. «Dobbiamo controllare i vicini. Ad avere la vista migliore sulla stanza di Gilly è quella» indica dalla finestra la casa dietro la staccionata che chiude il giardino sul retro, quella con il tetto di ardesia malconcio. «Cercherò di capire se la polizia ha interrogato i vicini. Potrebbero aver visto qualcuno che gironzolava da queste parti. Ah, volevo farti vedere questo.»

Infila la mano nel cassetto e tira fuori un portafoglio nero, di pelle, da uomo. È liscio e leggermente curvo, come se fosse stato tenuto a lungo nella tasca posteriore dei pantaloni. Marino lo apre. Dentro c’è una patente scaduta, intestata a Franklin Adam Paulsson, nato il 14 agosto 1966 a Charleston, South Carolina. Non ci sono carte di credito né contanti. A parte la patente, il portafoglio è vuoto.

«Il padre» dice Kay Scarpetta, guardando attentamente la foto sulla patente, che ritrae un uomo biondo e sorridente, con la mascella squadrata e occhi grigio-azzurri. È un bell’uomo ma non le piace, per quello che si può giudicare da una fotografia. Forse è lo sguardo gelido. Ha qualcosa di strano, ma non riesce a capire che cosa.

«Questo cassetto è interamente dedicato a lui. Vedi queste T-shirt?» chiede Marino tirando fuori una pila di magliette bianche, piegate e ordinate. «Taglia large, da uomo, presumibilmente del signor Paulsson. Certe sono macchiate e bucate. Poi ci sono le lettere» contìnua, porgendole una decina di buste. Alcune contengono biglietti di auguri. L’indirizzo del mittente è di Charleston. «E poi questa.» Prende una rosa dal gambo lungo, rossa e ormai appassita. «Vedi anche tu quello che vedo io?» domanda a Kay.

«Non è vecchissima.»

«Infatti.» La ripone dentro il cassetto. «Ha due o tre settimane, a occhio. Tu che le coltivi, che cosa dici?» Come se Kay Scarpetta fosse un’esperta di rose appassite.

«Non lo so, ma anch’io direi che non è lì da mesi. Non è ancora completamente secca. Pensi di cercare impronte, Marino? Dovrebbe averci già pensato la polizia. Che cosa ha fatto la Scientifica?»

«Una serie di ipotesi» risponde Marino. «Niente di più, temo. Adesso vado a prendere la valigetta in macchina, scatto qualche foto e cerco le impronte. Sulla finestra, sui vetri e sul telaio, sui mobili e nel primo cassetto. Direi basta.»

«Okay. Ormai non corriamo il rischio di manomettere niente. Chissà quanta gente è già entrata in questa stanza…»

«Poi controllo il giardino» continua Marino. «Anche se dopo due settimane è difficile che ci siano ancora cacche di cane in giro. Se non fosse piovuto, forse, ma così… Non so se riusciremo ad accertare se c’era effettivamente un cane. Browning non me ne ha parlato.»

Kay Scarpetta ritorna in cucina. La signora Paulsson è ancora seduta a tavola. Sembra che non si sia mossa, che sia rimasta nella stessa identica posizione sulla sedia, lo sguardo perso nel vuoto. Non crede veramente che sua figlia sia morta di influenza. Come può continuare a credere una cosa del genere?

«L’hanno informata che anche l’FBI si sta occupando del caso?» le domanda Kay Scarpetta, sedendosi di fronte a lei. «Che cosa le hanno detto, esattamente?»

«Non lo so, non guardo quel genere di cose alla TV» risponde con un filo di voce.