«No, no, è che mi sta venendo il raffreddore. Senti che ho il naso chiuso? Avresti dovuto vedere quando mi sono alzata: non riuscivo a respirare…»
Lucy guarda prima la spia rossa accesa sul registratore e poi il foglio di carta sotto la lente del microscopio, che si è arricciato per il calore. Le impronte violacee sono grandi abbastanza per essere di un uomo, ma è meglio non tirare conclusioni affrettate. L’importante è che ci siano. Sempre che appartengano alla bestia, e che chi ha attaccato quell’orribile disegno alla porta di Lucy sia la stessa persona che si è introdotta furtivamente nella villa e ha aggredito Henri. Lucy guarda affascinata le macchie, le tracce che la bestia ha lasciato sul foglio, gli aminoacidi che ha perso con il sudore.
«Sai che la mia nuova vicina è un’attrice famosa?» dice la voce di Kate. «Ti dirò, non mi sono sorpresa, quando me lo ha detto. In realtà l’avevo già capito da sola. C’è sempre un viavai di macchinoni… Quanto costano: centinaia di migliaia di dollari? E poi tutto quello sfarzo. Un po’ volgare, se devo dire. Del resto, si sa, la gente di spettacolo…»
La bestia non è stata attenta a non lasciare impronte. Se n’è fregata e Lucy prova un moto di sgomento nel rendersene conto. Sarebbe stato meglio il contrario. Chi si premura di non lasciare traccia di sé sa di poter essere riconosciuto, sa di essere schedato e quindi, molto probabilmente, ha precedenti penali. Invece le impronte della bestia non compaiono in nessun database. La bestia non si preoccupa, maledizione. Se ne frega altamente, perché sa che nessuno potrà mai identificarla dalle impronte digitali. “Vedremo” pensa Lucy, guardando minacciosa le macchie violacee sul foglio. Le pare quasi che sia lì, ne percepisce la presenza su quel disegno. Si sente osservata anche da Kate e si innervosisce sempre di più. La rabbia che le cova dentro minaccia pericolosamente di esplodere.
«… Tina… Oddio, mi sono dimenticata il cognome! O forse non me l’ha nemmeno detto. No, no, me lo ha detto. Mi ha raccontato tutto: di lei, del suo ragazzo, della sua collega che è stata aggredita ed è tornata a Hollywood…»
Lucy alza il volume e fissa le macchie viola sul foglio mentre ascolta con attenzione la sua vicina che parla di Henri. Come fa a sapere che è stata aggredita? Sui giornali la notizia non è uscita e Lucy ha accennato a un maniaco, ma non ha parlato di aggressioni.
«Carina, molto. Bionda, bel fisico, graziosa anche di viso. Alta e magra, sai, la classica attrice hollywoodiana. Non sono certa, ma la mia impressione è che lui stia con l’altra, Tina. Perché? Ma è ovvio, cara. Se stesse con la biondina, sarebbe andato via con lei, no? Sì, la bionda è ripartita dopo la storia del ladro, della polizia, dell’ambulanza…»
“Ah, già, l’ambulanza” pensa Lucy. Kate ha visto l’ambulanza, la barella, e ne ha dedotto che Henri è stata aggredita. “Non sono abbastanza lucida” si dice, arrabbiata e frustrata. Non le piace perdere la lucidità e farsi prendere dal panico. Continua ad ascoltare e guarda fisso il registratore nella valigetta sul tavolo, vicino al Crimescope. “Cosa mi prende?” si domanda. Ripensa al sudamericano sulla Ford blu e si sente una perfetta imbecille.
«Sì, infatti, me lo sono chiesta anch’io: perché i giornali non ne hanno parlato? Eppure ho controllato, lo sai. Non c’era niente.» Kate continua a parlare con voce strascicata. Probabilmente sta continuando a bere. «Infatti, infatti» ribadisce con sempre maggior convinzione. «Succede una cosa del genere a gente di spettacolo e i giornali non scrivono nemmeno una riga? Però è così. Forse sono in incognito, la stampa non ne sa nulla. Perché dici questo? Non è vero. Ha un senso eccome. Pensaci…»
“Possibile che tu non sappia parlare d’altro che di queste fesserie?” si spazientisce Lucy.
“Devo darmi una regolata” si dice poi. Cerca di riflettere. I capelli trovati sul letto! Capelli lunghi, neri, ondulati. “Porca miseria” pensa. “Perché non gliel’ho chiesto?”
Si toglie le cuffie e le posa sul tavolo, poi si guarda intorno, mentre la registrazione della telefonata della sua vicina continua. «Merda!» esclama ad alta voce. Non ha chiesto a Kate né il cognome né il numero di telefono e non ha voglia di cercarli. E comunque, dubita che Kate risponderebbe al telefono, se la chiamasse.
Si va a sedere a un’altra scrivania e accende il computer, con cui prepara due inviti per la première del film Jump Out riservata al cast e a un ristretto gruppo di amici, in programma il 6 giugno a Los Angeles. Li stampa su carta fotografica lucida, li taglia perché siano della misura giusta e li mette in una busta con un bigliettino: “Cara Kate, mi ha fatto molto piacere chiacchierare con te. Hai riconosciuto quello con “i capelli lunghi, neri e ondulati? (Dài, su, non è difficile!)”. Aggiunge il proprio numero di cellulare.
Esce di corsa e suona alla porta di Kate, che non risponde al citofono né tantomeno apre la porta. Evidentemente è troppo ubriaca. Magari si è addormentata. Le infila la busta nella buca delle lettere.
21
La signora Paulsson è nel bagno, e non sa come ci è finita.
È un bagno vecchio, anni Cinquanta, con il pavimento di mattonelle bianche e blu, un semplice lavabo bianco, un semplice WC bianco e una semplice vasca bianca con una tenda da doccia rosa e viola. Nel bicchiere sul bordo del lavandino ci sono lo spazzolino di Gilly e un tubetto di dentifricio. Perché è venuta nel bagno?
Guarda spazzolino e dentifricio e scoppia in singhiozzi ancora più convulsi. Si lava la faccia con l’acqua fredda, ma non serve a niente. Affranta, esce e torna in camera di Gilly, dove la dottoressa di Miami la sta aspettando. Il poliziotto è stato così gentile da portarle una sedia e sistemargliela vicino al letto. È tutto sudato. Nella stanza fa freddo, la finestra è aperta, ma lui ha la faccia rossa e imperlata di sudore.
«Ci dica tutto.» Le sorride senza cordialità, ma lei lo trova attraente. Non sa perché, ma le piace. Le piace provare qualcosa quando lo guarda, quando lui le va vicino. «Si accomodi, signora Paulsson. Cerchi di calmarsi» le dice.
«Avete aperto voi la finestra?» gli domanda, sedendosi e mettendosi le mani in grembo.
«Quando tornò dalla farmacia, quella mattina, trovò la finestra aperta o chiusa?» le chiede lui per tutta risposta. «Se lo ricorda?»
«È una stanza calda, questa. I termosifoni sono difficili da regolare. L’impianto è vecchio.» Guarda il poliziotto e la dottoressa. Non le sembra giusto stare lì seduta vicino al letto di Gilly a guardarli dal basso. Si sente piccola piccola, è spaventata, tesa. «Gilly la teneva spesso aperta. Quindi può darsi che fosse aperta, quando sono tornata dalla farmacia. Non riesco a fare mente locale.» Le tende ondeggiano, bianche e impalpabili come fantasmi. «Sì, forse era aperta» aggiunge.
«Sapeva che è rotta? Che non si chiude?» domanda il poliziotto. È immobile e la guarda negli occhi. Non si ricorda come ha detto che si chiama. Marinara? Qualcosa del genere, comunque.
«No» risponde impaurita.
La dottoressa va a chiudere la finestra con le mani protette dai guanti bianchi e guarda fuori.
«Non c’è niente di bello da vedere in questa stagione, dottoressa» dice con il cuore che batte forte. «In primavera, però, è una meraviglia.»
«Lo credo» replica lei. La dottoressa è una donna interessante, ma le mette paura. Si spaventa per niente, ormai. «Ho il pollice verde. Mi piace trafficare in giardino. E a lei?»
«Sì, molto.»
«Secondo voi è entrato qualcuno dalla finestra?» domanda, notando che il davanzale, il telaio e i vetri sono sporchi di polvere nera.
«Ho controllato se c’erano impronte digitali» spiega l’uomo. «Non so perché la polizia non le avesse cercate. Io ne ho trovate alcune. Adesso faremo le verifiche del caso. Dovrò prenderle le impronte, signora Paulsson, per escludere che siano le sue. O gliele hanno già prese i poliziotti?»